Vedere dall’alto è un bel sollievo.
Intanto, niente odori. E si può gonfiare il torace finalmente. Bello largo. Poi non ci toccano. Tutta questa promiscuità. Sette miliardi siamo, qualcuno si riproduce in modo irresponsabile. E anche le orecchie hanno tregua: tutti a lamentarsi, e parlare. E infine dall’alto abbiamo le giuste proporzioni.
Son piccoli piccoli. Forse non sono nemmeno come noi. Diversi, per razza, lingua, vestiti, cucina, vocazione. C’è chi vince e c’è chi perde, la legge della vita.
Le migrazioni ci sono sempre state, le invasioni barbariche noi le abbiamo studiate. E alla fine, chissà cosa c’è di vero in tutto questo drammatizzare.
Poi capita che la tempesta ci fa precipitare. E può essere grazia.
Perché, respinti fino all’orlo dell’ira, non avranno tregua al rancore, né noi alla colpa, se non ci troveremo un giorno accomodati di fronte a guardarci negli occhi a raccontare il nostro aver troppo volato fino ad essere ciechi.
Non sempre si arriva fin dentro la terra promessa della nostra comune umanità. Anche la Scrittura racconta eroi che non ce la fanno. Ma non rassegnarci al deserto dei sentimenti, non rimpiangere il nostro tronfio non capire, e poter dire a chi incontriamo: «Questa è la nostra terra. Felice che almeno tu la possa abitare».
Avvenire, 30 maggio 2012
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