vedere (3)

Vedere dall’alto è un bel sollievo.
Intanto, niente odori. E si può gonfiare il torace finalmente. Bello largo. Poi non ci toccano. Tutta questa promiscuità. Sette miliardi siamo, qualcuno si riproduce in modo irresponsabile. E anche le orecchie hanno tregua: tutti a lamentarsi, e parlare. E infine dall’alto abbiamo le giuste proporzioni.
Son piccoli piccoli. Forse non sono nemmeno come noi. Diversi, per razza, lingua, vestiti, cucina, vocazione. C’è chi vince e c’è chi perde, la legge della vita.
Le migrazioni ci sono sempre state, le invasioni barbariche noi le abbiamo studiate. E alla fine, chissà cosa c’è di vero in tutto questo drammatizzare.
Poi capita che la tempesta ci fa precipitare. E può essere grazia.
Perché, respinti fino all’orlo dell’ira, non avranno tregua al rancore, né noi alla colpa, se non ci troveremo un giorno accomodati di fronte a guardarci negli occhi a raccontare il nostro aver troppo volato fino ad essere ciechi.
Non sempre si arriva fin dentro la terra promessa della nostra comune umanità. Anche la Scrittura racconta eroi che non ce la fanno. Ma non rassegnarci al deserto dei sentimenti, non rimpiangere il nostro tronfio non capire, e poter dire a chi incontriamo: «Questa è la nostra terra. Felice che almeno tu la possa abitare».

Avvenire, 30 maggio 2012

vedere (2)

Dal basso. Tre metri sotto la nostra dignità. Difficile vedere.
Ma proviamo.
Intanto è sottinteso che se si volesse davvero veder tutto alla fine non si vedrebbe niente. Sotto sotto bisogna scegliere, altrimenti non si vive, tutte queste disgrazie e poi a scavare bene ce n’è per tutti. Si nasce che si sta bene, non è poi colpa nostra e i ricchi e i poveri ci saranno sempre. Sotto sotto comunque ci si adatta a tutto e le ricerche ci dicono che i più poveri sono anche più felici, si accontentano di poco. Chi ha di più, ha più preoccupazioni e non può star quieto. A scavare bene si capisce che è una condanna aver qualcosa.
In fondo c’è tanta confusione nella vita. Piace al diavolo dicono, ma si sa che in fondo non ci crede nessuno.
È che ogni tanto si deve un po’ affiorare per prender fiato e si scopre con sgomento che il mare può continuare a essere blu, vivo, anche se sotto non ci sono più madrepore e coralli ma solo rovine di battelli inumati. E sulle colline oltre la spiaggia i fiori continuano a fiorire senza sforzo alcuno.
E vien voglia di andare a riva finalmente e camminare scrollando la gogna di non voler vedere, di non saper commuoversi.

Perché la vita non finisce. Struggente e necessaria. A cosa altro si può obbedire se non a tutte le vite del mondo?

Avvenire, 29 maggio 2012

vedere (1)

Certo che li abbiamo visti, con la coda dell’occhio e il fastidio nel cuore. Per come si muovevano non c’era modo di evitarli: da un canale all’altro, da un giornale all’altro, anche nei settimanali ci si inciampava, hai un bel voltar pagina veloce, spesso ne occupavano due e li abbiamo pure sentiti, in macchina alla radio, anche le frequenze occupavano.
Certo che sono poveri, ma in fondo se la son voluta. Hanno tutto, a saper vivere: oro, petrolio, diamanti e uranio. Ma fanno la guerra invece degli affari e anche in questo non sono poi così bravi. Non vince mai nessuno e poi arrivano da noi, perché siamo qui, terra di mezzo comoda come una passerella. Ma Lourdes è da un’altra parte, e anche Santiago, glielo dite una buona volta. Vogliono udienza. Ma grazieadio che ci sono le stagioni e non arrivano tutti e un po’ ci restano, e in fondo, non si vuol dire perché sembra male, ma invece è meglio anche per loro, almeno hanno smesso di soffrire, in fondo tutti si deve morire.
E poi, che vita avrebbero avuto qua, non c’è posto per tutti, non sanno la lingua, ci rubano il lavoro, e le figlie, disturbano il passeggio nei centri storici, così belli.
Se la costruiscano, la loro storia.
Certo che li abbiamo visti, con la coda dell’occhio e la vergogna nel cuore.

Avvenire, 27 maggio 2012

ricordare

Non è bene ricordare tutto, è una malattia. Ma ricordare nulla è un peccato, e nella classifica dei peccati, è il primo, e il più grave, dimenticare. Che c’è stato chi ci ha fatto volare da bambini, e ci ha ripreso sicuro, voltando la paura in allegria, che non abbiamo meritato tutto, ma lo stesso abbiamo avuto, e insieme agli affetti anche tutti i dispetti portiamo con noi, ferite benedette che mi dicono non sei Dio, il mondo siamo tanti.
C’è poi da ricordare chi è vissuto troppo poco per avere una storia da lasciare, e chi non ha avuto testimoni, perché gli altri erano tutti spettatori ben accomodati da qualche parte.
Per questi chi sa scrivere deve scrivere, storie più lunghe del loro essere stato, con parole vere perché sono nostre, di chi sa che possiamo dire e fare perché c’è chi ce l’ha permesso a caro prezzo, e per questo ha lasciato la vita e davvero dimenticare è peccato mortale. E non abbiamo bisogno dei tanti giorni comandati per ricordare.
È un’arte divina il ricordare, che contiene la grazia del dimenticare, perché se si ricordano le colpe, chi si può salvare? Ed è divina perché chi non c’è più è qui ancora, e possiamo sentirci dentro il suo risorgere.
Ma a noi attenti, «La bocca del passato non parla se l’orecchio del presente non ascolta». (Karl Barth)

Avvenire, 25 maggio 2012