gratitudine

C’è oggi un vivere ignaro, come se fossimo nati senza essere cominciati, solitari abitanti di un deserto di sentimenti, nel folle dimenticarsi di aver padri e madri del corpo e dello spirito.
Esserci noi, le nostre idee, la nostra vita, il nostro agire diritto e determinato e veloce e senza confini. Noi e il mondo, noi contro il mondo.
Vivere in assenza, sventura che non conosce compianto. Solitario affermarsi, uno su mille. Lasciando a parte chi ci ha dato. La cura, le parole, la vita. O un’esperienza che ci ha disegnato per sempre. Eppure dimenticata, abbandonata, persa nell’ebbrezza dell’inchino superbo al nostro sfaldarci d’amore per noi.
Intossicati di sé. Overdose di un io smemorato e noncurante. Ingrato appropriarsi di quel che abbiamo senza merito alcuno ricevuto.
Come si fa a vivere così? A coltivare l’illusione di esser sufficienti dall’origine, senza fratelli e sorelle e madri e padri. Sfida triste e confusa che ci confonde con la confusione del mondo. Non poter dire grazie, e liberarci dal peso di portarci tutti interi. Non conoscere la leggerezza di dividere la storia, nostra e del mondo. Camminar leggeri. Esser grati.
La gratitudine è questo vivere accompagnati. Preceduti, regalati, mai soli.
5 aprile 2012

stupore

Certo che il «farsi meraviglia» è un bel modo di passare i giorni. Io qua e loro là.
Le spalle appoggiate a un angolo alto. Ben difesa, al sicuro come sul trono di un giudice, l’anima sigillata che si basta del suo custodirsi, che non si è persa mai perché non ha mai conosciuto il partire.
E forse nemmeno il patire. Patire necessario che viene dal turbamento inquieto e curioso. Patire come sentire. Senza dolore, pura contiguità al sentire del vicino. Oppure sì, anche con il dolore, a volte, del portare il peso insieme.
Senza grazia è il «farsi meraviglia». Puntuto come una lancia, nel tempo sempre più precisa. Declinazione devota di ogni giudicare: calcolo, misura, vaglio. Stringere la vita in un confine, perforarla con lo sguardo e passare oltre. Senza vedere. E sentire. Il vento dei diciassette anni sulla fronte. E dei settant’anni sulle mani. E la vita che ci circonda da ogni parte, calore e voci da riconoscere per averle incontrate un tempo, amate, sopportate, accompagnate in silenzio, di nuovo incontrate.
Stupore del tempo che rimane. Del sonno che viene. Delle nuvole, delle montagne, del nostro giardino e balcone che sopravvivono al nostro tradimento. Stupore di essere più grandi del nostro giudicare.
Avvenire, 4 aprile 2012

rancore

Senza. Senza l’ossessione: lui mi ha fatto, lei mi ha detto. Per denaro, invidia, potere, indifferenza, malvagità, pura malvagità. Pensiero preminente, su tutto, che mi precede, accompagna, segue. Ombra densa, collosa, che annoda i sentimenti. Irrecuperabile attesa di poter restituire il colpo. Nitido colpo. Ricordo solitario, rimasto lucente nel cinerino del tempo intanto andato.
Senza l’angustia: solo l’immagine, la scena rivista mille volte, le parole sfrontate non si smorzano nell’aria. Perché non c’è aria. Il respiro bloccato ogni volta che il pensiero si affaccia. Lui mi ha fatto. Lei mi ha detto. Maniaco, solitario consumarsi.
Con la libertà: di pensare pensieri nuovi, messaggeri separati dal dolore ormai innocuo, che può diventare prova già andata, risata saggia.
Vita un po’ incauta, pronta a perdersi perché sa di sé, circondata di storie, più serie e più allegre della sua, e voci e coincidenze e scanti, e campi che si possono calpestare lasciando tracce da abbandonare o ripercorrere, insieme e da soli e poi ancora insieme, una festa, allegria del ritrovare questa intima, tutta nostra, potente, necessaria forza che ci fa compagnia.
Vita libera, abbastanza libera, e quindi restituita, nostra unica occasione finalmente afferrata.
Una vita libera dal rancore.

commozione

Si commuove il corpo. A sorpresa, prima che l’opportunità, la ragionevolezza, la buona educazione, la paura, la fretta, il decoro, la dignità, l’egoismo possano alzare il muro.
Si commuove a tradimento, nello spazio confuso fra un istante distratto e un altro. Certo, è uno sconcio commuoversi. Il corpo è così scomposto se ci prende a sorpresa: piange, trema, magari si muove da solo, verso l’altro, prima che possiamo ricordarci la prudenza, il decoro, il buonsenso. A che serve far qualcosa: piccolo, inutile, svanito, patetico, romantico, visionario avvicinarsi solitario che vince un momento la paura, e riesce a veder l’altro in me, confusione buona, primitiva, fraternità ritrovata in un mondo di figli unici, forse nemmeno figli, non sia mai che ci tocca esser grati a qualcuno.
Un passo, ecco un passo il corpo l’ha fatto e lo spirito vien dietro perché ha visto e se questo vedere capita il mondo è diverso, pieno di nomi e suoni, non più un battere strade senza nome fra ombre che si ignorano senza fatica.
C’è verità nel corpo: sa che l’amore è nato, lo sa prima che il pensiero se ne accorga. Per gli inganni ha bisogno dell’oscurità.
Si commuove il corpo benedetto, umanità comune, dimora di Dio.
1 aprile 2012