tenerezza

Certo che ci si espone. Allarghiamo le braccia per accogliere e il cuore è lì comodo a chi ci pugnala. Sorridiamo e la risata del mondo ci può travolgere cattiva. La mano aperta per carezzare può venire afferrata e i polsi fanno male mentre qualcuno ci spinge contro muro. E il cullare è anche duro, di notte, stremati, con gli occhi già chiusi di fatica.
Ma cosa viene dall’assecondare la seduzione buona di seguire la legge del corpo, consolati per contatto, per contaminazione, passaggio di calore, legge fisica e spirituale del disarmo che smantella la volontà d’offesa, non si uccide chi ci abbraccia. O forse sì, incarnazione, croce, storia della tenerezza di Dio per l’uomo. Ma la tenerezza ci rende giusti. Amati più di quel che ci amiamo. Giudicati per quel che non possiamo e non per quel che facciamo, o siamo.
Desiderio accolto nella forma dell’origine: carezza antica che viene dall’audacia di chi si fida, si affida completamente e non teme abbastanza per sé perché teme molto più per noi. Quanto divina è la tenerezza che si fa scoglio all’offesa, non scappa l’agonia, è leggera e tremenda, non sa di frontiere fra me e te.
E poi la tenerezza è lenta come il tempo del piacere. Come un’eternità che promette pace.
Avvenire, 18 aprile 2012

angoscia

Dal profondo. Quel che nasce dal profondo porta con sé una promessa. Non è senza fine il cadere nell’angoscia, c’è un punto da cui risalire, dal profondo di un dolore che posso dire almeno come grido, che altri possono sentire, per poi guardar giù e insieme attrezzare un soccorso. Ci sono pietre da sollevare, passaggi da costruire, persone da far tornare, un indirizzo da scrivere, o una poesia, un corpo da curare.
Una qualche piccola puntuta, a volte solo pensosa, verità che abbiamo dovuto trovare e che ora è parte di noi, oppure che possiamo mettere in comune con chi ci ha aspettato là fuori, forse per tanto tempo, senza poterci aiutare, ma senza sparire mai.Quanto all’angoscia, è il nostro segreto.
Un esser sull’orlo di tutto, affaccio sul morire e quindi sul sapere, finalmente, vedere il nostro agire nel tempo sempre più svelto e più lontano e meno mio, e invece sempre più di altri che chiamano, vogliono, si aspettano, si aspettano da noi quello che non siamo. E l’angoscia è questo quasi da fuori capire che non sappiamo, davvero non c’è luce per leggere, però possiamo insieme regalarci l’un l’altro infiniti perdoni e con la gioia di questi doni andare fino in fondo, come tutti, con tutti, e infine forse sapere, sì, ma intanto essere felici, per quanto possibile.
Avvenire, 17 aprile 2012

speranza

C’è qualcuno che mi aspetta.
Una corsa possibile, che potrebbe fare e farà, per venire e insieme resistere, ancora una giornata, tutta nuova, nessun gesto distratto ancora fatto, non una parola sgarbata ancora detta, nessun appuntamento saltato.
Certo non è qui ora. Né lui né lei. Mi rimane il segno di un profilo, visto certamente, l’impronta di una voce sentita un tempo chiara, era una promessa, non sei sola, non lo sei mai stata ma ora lo sai.
Fa la differenza averlo sentito. Poterlo ricordare.
C’è forse un tenere estremo, così timoroso di apparire che non vuole farsi sentire. Ma a me è stato detto.
So che nemmeno il silenzio è un addio. Che l’assenza è un impedimento, suo, o un’incapacità, o un’impossibilità. Ricordo quel che è stato e lo sento parte di me, per sempre dentro come cosa buona,
Vista da sempre. Sono stata vista da sempre. Pensata e voluta e poi desiderata come radioso compimento di una vita.
Mi si dimentica, oggi, così penso nel mio bisogno.
Ma una promessa mi è stata fatta. Era qualcuno che le promesse le mantiene. Anche quelle a cui nessuno ha creduto. Ha detto che sarebbe tornato. Ed è tornato.
C’è qualcuno che mi aspetta, oggi. Devo alzarmi, devo andare. Ho promesso. Ricordo bene di aver promesso.
Avvenire, 15 aprile 2012

disperazione

C’è questo stupore che il tempo continui, continui oltre il nostro dolore. Com’è possibile che le persone abbiano ancora un’intenzione, una meta da raggiungere, un’incombenza da sbrigare, magari in fretta e di corsa, senza niente pensare. E il governo un decreto astratto e indifferente da votare, assenti tutti dai banchi, tranne gli interessati. Perché ancora sono convinti che un interesse, il loro interesse, valga la pena. Mentre il mondo è tutta una pena. E tutti fan finta di credere a qualcosa: la cena da preparare, il bollo da incollare.
Bisogna averla conosciuta la disperazione. Toccato la fine del nostro mondo, addossati al confine ultimo, niente più in là. Non il caldo di un desiderio che ci aspetta almeno come promessa, non le mani che ci sfioravano e che abbiamo perduto, nemmeno la fantasia, la più bugiarda delle promesse. Niente. Niente.
E niente si può dire perché la disperazione sente solo parole insincere, che dicono la consolazione senza conoscerla, e fanno male come una predica distratta a un funerale.
Che ci trovino accanto. Silenziose presenze senza pretesa. Senza giudizi. Senza soluzioni. Dove trovar pace. Una vastità accogliente. Che non giudica. Che offre riposo. Non siamo soli, non siamo soli.
Avvenire, 14 aprile 2012