cantare

Non è necessaria la voce limpida e accordata. Il cuore leggero però sì. E nemmeno un pubblico è obbligatorio. Però a qualcuno ci si rivolge.
È un traboccare di noi. Come una creazione. Non poter trattenere quel che siamo. Regalarsi alla vita che ci avvolge.
Canta il corpo, dice l’amica soprano, tutto il corpo. Se non c’è armonia di sé non c’è bel canto. Né se manca l’amore di sé. E gli altri? Si canta quando non si odia, non si è arrabbiati, non si tiene il broncio, non si prova rancore. Almeno un po’ di benevolenza è richiesta. Quel che basta.
Ogni organo fa la sua parte, dice l’amica. Non tutti gli organi hanno un nome musicale: laringe, diaframma, bronchi, viscere anche. Non importa. Tutti fan corolla alla voce che si disperde senza far conti, segreto della vita nascosta del corpo che diventa quasi spirito, avviso di quel che sarà.
E anche la volontà c’entra, è sicuro. Non si canta sopra il pianto straniero del mondo, oppure a sovrastare la pena di un silenzio che va prima esaudito.
Bisogna volere una storia nuova, per poter cantare. E lavorare con mani e piedi e intelligenza e volontà a questa storia. Per questo, ed è bellissimo, chi lavora, può cantare.
«Saldo è il mio cuore, Dio,
saldo è il mio cuore:
voglio cantare inni, anima mia» (Sal 108, 2).

Avvenire, 3 maggio 2012

invidiare

Non si fa mancare nulla di nulla chi invidia. Si occupa di scarpe, automobili, libri, orologi, collane e mariti, o mogli. Livido figurante del potere, visto che non è dio si affatica, si estenua, fa pratica di malvagità su tutto quel che lo circonda, umiliare il mondo per innalzarsi, senza essere nulla in più, troppo infelice e quindi senza misura cattivo. A non perdersi un batter di ciglia, atomizzato in milioni di inutili attenzioni per carpire, sapere, e giudicare, giudicare, giudicare.
Con un effetto distruttivo, su uomini e cose. Su se stesso per primo, segregato nel pensiero, umiliato dalla vergogna di essere sempre lì, senza distacco possibile dal bene degli altri, da corrodere e irridere. E non poter nemmeno travestire di una qualche nobiltà di parola questo peccato impudico che alla fine non può star nascosto.
Carsismo del male che prima a lungo scorre sotterraneo e ci riempie di caverne in cui annegare l’energia che pure abbiamo, potente, nostra, che intanto declina, nell’avvilimento di non portarci ad essere quel che veramente vogliamo, andare liberi, alzar la fronte e dire all’altro con la simpatia di chi si somiglia: «È forte la tua bufera, la possiamo attraversare insieme?».
«Essere uomini e non essere Dio. Questa è la summa. Non c’è altro» (Lutero).

Avvenire, 1 maggio 2012

amore (5)

A volte si perde l’amore. Se ne va come se non ci fosse mai stato, improvvisamente colpiti da indegnità e non si sa raccontare una storia che spieghi: troppo minuto il nostro accudire? Troppo attaccamento, troppo distacco, troppo docili, troppo orgogliosi, troppo irriverenti, deferenti, originali, contraffatti, furtivi, sfacciati, queruli, segreti. Appassionati.
Non ci si crede ed è giusto. Le parole dette, ascoltate, non passano senza cambiare, e quindi dov’è il nostro tessere comune le età che si intrecciano e confondono i ricordi bambini perché l’amore è eterno in avanti e anche indietro e sappiamo che tutto era pronto ad allinearsi fin dal principio, e infatti è capitato proprio a noi così sì questo possiamo raccontarlo. Non la fine di un amore. Per quello non abbiamo le parole.
A volte si inventa un amore per coprire il dolore. Che l’amore sia finito. Che non ci sia mai stato. Che non lo abbiamo coltivato. Scivolato nella distratta virtuosità dei giorni, sbriciolare promesse, non conta nemmeno la disciplina, piccolissime assenze diventano oltraggio, non visti, non sentiti. E poi le attese e nessuno si accorge che intanto finisce. L’amore finisce?
Come si fa, come si fa?
E così tutto dice che l’amore è tutto.
Avvenire, 29 aprile 2012

amore (4)

A volte si perde l’amore. Se ne va come se non ci fosse mai stato, improvvisamente colpiti da indegnità e non si sa raccontare una storia che spieghi: troppo minuto il nostro accudire? Troppo attaccamento, troppo distacco, troppo docili, troppo orgogliosi, troppo irriverenti, deferenti, originali, contraffatti, furtivi, sfacciati, queruli, segreti. Appassionati.
Non ci si crede ed è giusto. Le parole dette, ascoltate, non passano senza cambiare, e quindi dov’è il nostro tessere comune le età che si intrecciano e confondono i ricordi bambini perché l’amore è eterno in avanti e anche indietro e sappiamo che tutto era pronto ad allinearsi fin dal principio, e infatti è capitato proprio a noi così sì questo possiamo raccontarlo. Non la fine di un amore. Per quello non abbiamo le parole.
A volte si inventa un amore per coprire il dolore. Che l’amore sia finito. Che non ci sia mai stato. Che non lo abbiamo coltivato. Scivolato nella distratta virtuosità dei giorni, sbriciolare promesse, non conta nemmeno la disciplina, piccolissime assenze diventano oltraggio, non visti, non sentiti. E poi le attese e nessuno si accorge che intanto finisce. L’amore finisce?
Come si fa, come si fa?
E così tutto dice che l’amore è tutto.
Avvenire, 28 aprile 2012