Di generazione in generazione. Si pensa (forse, si è pensato) a volte che generare sia scontato e naturale, vita ricevuta con gratitudine e data con la spontaneità operosa della primavera che arriva con il suo incanto sicuro.
Pensare incauto, quasi che il dubbio portato dal fumo indecente dei campi non avesse oscurato il cielo, il cielo delle stagioni, per non dire del trono di Dio. E come se la paura non abitasse oggi il centro di tutto. Paura di non avere abbastanza, non poter difendere dal dolore, non saper dire le parole che rispondano al perché: «Perché la vita, col suo male?».
Abbiamo dilapidato il bene del mondo a nostra condanna. La sua bellezza, e non c’è più il candido appena rosa di un melo fiorito da offrire in risposta, né quasi più ormai un paesaggio nel mare di nebbia per cui ringraziare. Abbiamo chiamato successo il nostro prevaricare, e neanche l’offesa abbiamo condannato, o il potere ostentato alla faccia del povero.
Oggi generiamo sapendo di dover rendere ragione ogni ora della fede che è in noi. Quasi una santità segreta ci è richiesta, minutissimo discreto mostrare che tutto ha valore di questa tremenda splendida vita che pure vogliamo.
Che possiamo non sottrarci alla vita, nostro bene, nostro tutto.
Avvenire, 10 maggio 2102