È un ponte, l’attesa. Si crede che oltre, dopo, ci sia qualcosa, anche se può capitare di non veder bene. Ma c’è un passo da fare e lo facciamo, a volte sull’impronta segnata da un altro. C’è un desiderio che mi porta e diventa movimento e se il procedere è senza traccia alcuna capita di pensare che il ponte si costruisca sotto i nostri passi, diventati noi creatori, per grazia.
È buona l’attesa, ci restituisce alla nostra responsabilità: se dopo di me non c’è l’abisso, custodisco allora il tempo che vivo e quello che viene. Per chi ancora viene e verrà.
Quando oltre c’è qualcuno, allora l’attesa diventa un preparare veloce, festoso e inquieto, dal vestito ai pensieri alle parole: cosa dirò? come starà? Allora tutto di noi diventa importante, e anche intorno a noi, lo spazio, le cose.
Non c’è debolezza, rassegnazione, pigrizia, indolenza nell’attesa. Nella promessa consegnata l’attesa è vita purissima, coltivata, difesa, progettata, infine riconsegnata a chi l’ha a sua volta attesa.
Non si deve aver paura di fare promesse.
Così è l’amore che sa mantenere quel che ha promesso anche nei lunghi spazi delle assenze che sappiamo capire e anche che non possiamo capire.
«Assenza, più acuta presenza». Attilio Bertolucci.
Avvenire, 15 maggio 2012