attendere

È un ponte, l’attesa. Si crede che oltre, dopo, ci sia qualcosa, anche se può capitare di non veder bene. Ma c’è un passo da fare e lo facciamo, a volte sull’impronta segnata da un altro. C’è un desiderio che mi porta e diventa movimento e se il procedere è senza traccia alcuna capita di pensare che il ponte si costruisca sotto i nostri passi, diventati noi creatori, per grazia.
È buona l’attesa, ci restituisce alla nostra responsabilità: se dopo di me non c’è l’abisso, custodisco allora il tempo che vivo e quello che viene. Per chi ancora viene e verrà.
Quando oltre c’è qualcuno, allora l’attesa diventa un preparare veloce, festoso e inquieto, dal vestito ai pensieri alle parole: cosa dirò? come starà? Allora tutto di noi diventa importante, e anche intorno a noi, lo spazio, le cose.
Non c’è debolezza, rassegnazione, pigrizia, indolenza nell’attesa. Nella promessa consegnata l’attesa è vita purissima, coltivata, difesa, progettata, infine riconsegnata a chi l’ha a sua volta attesa.
Non si deve aver paura di fare promesse.
Così è l’amore che sa mantenere quel che ha promesso anche nei lunghi spazi delle assenze che sappiamo capire e anche che non possiamo capire.

«Assenza, più acuta presenza». Attilio Bertolucci.

Avvenire, 15 maggio 2012

ammiccare

Purché il male non si veda. Disposti a tutto. A chiamarlo normale: normale ostentare la ricchezza, normale esibire potere, parole e persone, normale prevaricare, farsi raccomandare, tradire per poter luccicare un momento in tv, sul podio, sul palco, della fiera di paese. E poi negare: la malattia segregata o esibita, e l’età che naturalmente cammina, e poi la morte che ci dice
creature.

E c’è poi un modo oggi fatale di nascondere il male. Raccontarlo per minuto, di dritto e di sguincio, con tendini candidi recisi di netto da mannaie di criminali o da bisturi di anatomopatologi, fra urli e silenzi che ugualmente ci frastornano.
Troppo vedere, per poter non distinguere, ammiccare indecente al nostro essere peggiore. Troppo dentro, troppo frullati per poterlo chiamar per nome il male. Pronti a dire che tutto è male nella notte nera delle nostre responsabilità.
Coltivare col pensiero l’impotenza dell’azione. Come se non ci fosse una possibilità di giustizia, se non di ripararlo almeno di denunciarlo il male, dar voce limpidissima a chi lo subisce, dire che forse è sì vero che non possiamo a volte evitare di dargli principio, ma lo possiamo fermare ogni giorno in noi, chiamarlo per nome e dirgli: «Qui oggi tu non passi, in me, tra noi, non passi».

Avvenire, 13 maggio 2012

parlare

Dire solo parole che fanno la differenza.
Prima qualcuno era fuori, e noi lo abbiamo invitato ad entrare. Anche se non aveva le parole per chiederlo.
Lui non conosceva il suo nome, e noi lo abbiamo chiamato mentre ancora era lontano. Pentecoste quotidiana di chi si riconosce.
C’è anche chi non sa proprio le parole, straniero al paese in cui ha trovato rifugio e anche a se stesso in questa terra, e allora noi gliele insegniamo, una a una, festoni di suoni colorati appesi alle pareti d’aula, raggruppate in famiglie composte e perbene: casa, casina, casetta, casona, casata. Anche caserma per movimentare un po’. E a volte capita di consegnare una parola per noi indifferente e facile facile, come mare, ad esempio e quando loro, i bambini, ce la restituiscono e appendono il festone, scopriamo che non hanno potuto far famiglia, perché forse l’hanno persa per sempre, e le parole ci ritornano raggruppate per desideri e dolori: mare, mamma, casa. E anche porto, buio, onde, paura. E felici allora se troviamo parole che accolgano le loro che adesso oscillano lievi ogni volta che le sfioriamo sospese, disposte a diventare racconti non ancora scritti ma già pronti quasi a disperdersi nel mondo quando il vento entra dalle finestre aperte dell’aula e le solleva come la coda di un aquilone.

Avvenire12 maggio 2012

ricominciare

Ad essere civili? A controllare le parole che pronunciamo irrimediabilmente? A raccontare storie che ci fanno abbracciare?
A ricordare. Quel che molti ci hanno offerto. E i desideri che frullavano le nostre mattine. Senza misura e durata. Promesse di tutte le creazioni possibili.
A ostinarsi, e a non lasciare che la furia d’esistere di cui ci sapevamo felicemente impastati si lasci sfumare dall’abitudine a pensare pensieri comuni, desideri di tutti, circoscritti di sicurezze, troppo presto diventati cemento di muri alla cui ombra adattarsi, invece che pensieri dispersi, consegnati e ritornati freschi con la grazia e la larghezza di un campo di nuovo fiorito senza sforzo alcuno dalla polvere invernale.
Ricominciare dopo essere stati frodati di tutto, incompiuti, inflitti, mancanti, senza un bene da rivendicare, un bambino da accudire e grazie al quale dimenticarsi, senza essere eroi, con la grazia unica, tutta nostra, ricevuta e forse per un poco dimenticata, di poter osare tutta la libertà, santi non necessariamente, ma divini sì, in quella vita ricevuta che è per sempre nostra, forza, luce, in fondo, dentro, che esce quando non l’aspettiamo, ma la vogliamo, e ci fa ricominciare quando tutto sembrava perduto.

Avvenire, 11 maggio 2012