IL PUNTO esatto della questione è che in questo momento non c’è un modo semplice per uscirne. La realtà dei docenti precari nella scuola viene da un’accozzaglia di errori perpetrati con scientifica determinazione per ignoranza, piaggeria, leggerezza, calcolo politico, a seconda delle persone e delle epoche di cui si parla. In disordine sparso: c’è chi, politici si intende, ha promesso e permesso troppo, troppi corsi di laurea univocamente orientati all’insegnamento ad esempio, quando ormai era chiaro che non ci sarebbe stato spazio nella scuola per decenni; c’è chi, e son sindacati, a volte di consistenza quasi omeopatica, ha trovato la sua unica ragione di esistere nel patrocinare i ricorsi degli esclusi, dai concorsi o dalle graduatorie; c’è chi, e stavolta son ministri, non ha fatto concorsi per vent’anni, permettendo che il precariato della scuola diventasse una variante non così lontana dal ruolo; c’è chi poi, ancora ministri, ha scagliato di volta in volta soluzioni ex nihilo, sentendosi ciascuno come Dio nel primo giorno della creazione. Come se le professionalità comunque accumulate attraverso il precariato fossero nulla per la scuola.
E allora nuove selezioni, nuovi concorsi e concorsoni, che non tenevano conto dei precedenti e alimentavano speranza nuova sotto il segno del “luogo ai giovani” e insieme rinnovata disperazione di chi dopo SSIS e corsi abilitanti e decenni di insegnamento vedeva tutto annullato. E allora nuovi ricorsi. Precari antichi contro precari recenti.
Il risultato è devastantee non si può lasciar correre perché si parla di scuola, il nostro bene comune. Ci sono i ragazzi, e il loro diritto a una continuità di insegnamento che è anche continuità di metodo, di progetto educativo, di rapporto: tempo dato alla propria crescita, che può essere riconosciuta se c’è qualcuno che la accompagna nella sua durata. E ci sono questi docenti precari, uno su sette, il 15 per cento del totale, che intanto insegnano, avviano progetti, fanno i vicepresidi, lavorano all’Università anche, ma sempre sospesi, senza poter vedere il risultato del loro operare, ogni anno spostati qua e là, e molti anche no, oggi lasciati fuori dal taglio delle classi, che vuol dire classi oversize, dove è irreale poter creare quel luogo delle opportunità per tutti che è la vocazione civile e sociale della scuola.
Qui è davvero impensabile applicare decisioni massimaliste di qualsiasi segno. Azzerare tutto è impossibile e non è sensato. È un groviglio che richiede una grande sapienza politica L’esercizio dell’arte politica e nobile della mediazione. Si deve mediare fra la necessità assoluta di non dissipare competenze già acquisite, presenti e disponibili, e la necessità di assicurare una buona scuola agli studenti e ancora la necessità di scaricare la scuola dalle tensioni interne, la guerra dei precari, appunto. E dire la verità: che per tutti non c’è posto, ma che si fa il possibile, insieme, per evitare ingiustizie.
E poi per il futuro, un reclutamento commisurato al bisogno reale e capace di selezionare sulle competenze didattiche e non su discutibili abilità nel superare… i test di selezione. Ora però vuole un’alleanza con i docenti e i sindacati, inventare percorsi leggeri e nuovi che tengano ben ferma soprattutto la necessità di insegnare bene. Il Trentino, d’accordo con i sindacati, ha ad esempio la figura dei supplenti “triennalisti”. Il supplente firma un contratto che lo impegna a stare per tre anni nella scuola che sceglie. I ragazzi hanno la continuità didattica, il docente pure, in cambio perde il diritto ad avvicinarsi a casa, qualora dovesse liberarsi una scuola a lui più comoda. Una piccola soluzione al turbine di rotazioni annuali dei docenti. E poi si deve arrivare a una modalità concordata di utilizzo delle graduatorie esistenti per, banalmente, risolvere le situazioni più vistose e ingiuste. Recuperare almeno nella scuola la concertazione, rinunciando al tutti contro tutti.
E ancora, reinvestire nella scuola almeno nel tornare a un numero
decente di studenti per classe. Se di risorse si parla, e non ci sono si dice, allora da un lato bisogna ripeterci che rinunciare alla scuola vuol dire rinunciare al futuro, e dall’altro bisogna ricordarci che ogni studente costa allo Stato 8.000 euro l’anno (fonte Anp, Associazione nazionale presidi) e che il tasso di dispersione annua è in Italia intorno al 10 per cento. Questi sono studenti che poi ripeteranno. Vien da pensare che il risparmio immediato su classi o organico sia probabilmente un pessimo affare anche sul piano economico, oltre che sicuramente un dissennato atto di incoscienza civica e di ingiustizia verso i ragazzi più deboli, che sono spesso anche i più poveri sul piano culturale e sociale.
Su La Repubblica, 6 gennaio 2014