chi ha paura del mondo cattivo

CHI HA paura del mondo cattivo? Il pomeriggio del secondo giorno di scuola il genitore di un bambino di prima elementare telefona al preside e gli dice: «Oggi sul pulmino un compagno di mio figlio lo ha spinto. Per questa volta le telefono, la prossima volta le mando gli avvocati». Alla fine di un Consiglio di istituto dedicato ad approvare il piano di sicurezza della scuola il preside ringrazia e saluta una rappresentante dei genitori la cui figlia di quinta superiore sta partendo per un viaggio di istruzione a Berlino: «Ormai sua figlia e i suoi compagni sono maggiorenni e un po’ di responsabilità le condividiamo con loro», dice. «Eh no!», risponde la signora. «Se capita qualcosa la colpa è vostra».

Scuola a responsabilità illimitata. La preside di Bergamo che chiede ai genitori di venire a prendere i figli adolescenti alla fine delle lezioni solleva un problema verissimo. Dove arriva la culpa in vigilando della scuola? All’aula, ai bagni, sul pulmino, fino a casa, fino a diciotto anni e fino a Berlino. Ci sono sentenze che dicono di sì. Per la legge la scuola deve provvedere alla sorveglianza dei minorenni “fino al subentro reale o potenziale dei genitori”.

Qui c’è un conflitto gigantesco con l’obiettivo primo dell’educazione che è la crescita dell’autonomia personale dei ragazzi ma è talmente cambiata la percezione della sicurezza rispetto a un passato vicino che si vive (ansiosamente) la scissione: i figli tornano di notte a tutte le ore ma li si consegna alla scuola come a una teca iperprotettiva.

Il livello di rischio del mondo esterno è oggettivamente aumentato. Abbiamo accettato città e paesi costruiti per il traffico e il commercio e né bambini né adulti hanno vita facile. Tutti abbiamo paura e i genitori chiedono alla scuola quella sicurezza che sentono impossibile. Ma è un’illusione crudelissima quella che affida la sicurezza al controllo, che si tratti di insegnanti, poliziotti o telecamere.

La vita è altamente intollerabile se non la si vive in una condivisione di fiducia reciproca e di responsabilità. Esiste una responsabilità in educando, che è anche e soprattutto dei genitori, esiste la fiducia di cui tutti, i figli soprattutto ma anche la scuola, hanno bisogno. E insieme esiste il rischio che rimane dopo aver eliminato quello che dipende dalle nostre scelte sociali, amministrative, culturali. Però la vita è altamente intollerabile anche se non la si prende almeno un poco all’ingrosso. Cioè così come sta, con il suo essere tremenda e bellissima, spesso le due cose insieme, a volte in sequenza troppo ravvicinata.

Forse la preoccupazione ci fa sentire genitori migliori. La paura riempie bene la vita, copre i sensi di colpa per il tempo non dedicato, per lo sguardo mancato, per lo sgomento di non saper capire o di non poter proprio capire e la paura è più rassicurante dell’impotenza. Ma la paura non è una fatalità da accettare come la grandine che quando cade cade. È anche il risultato di un mondo al quale abbiamo permesso di essere più pericoloso del necessario.

Chiunque sia stato in visita alle scuole olandesi (e danesi e tedesche) ha visto la mattina arrivare sciami di studenti in bicicletta, colorati nei loro impermeabili, li ha visti riporre scarpe e stivali negli armadietti, fare lezione e ripartire alla fine della giornata di scuola. Possono essere rapiti durante il tragitto. Sì, ma si muovono insieme, il rischio è minore. Possono fare un incidente. Sì, ma il gruppo rende più sicuri e viaggiano sulle ciclabili. Possono ammalarsi per la pioggia. Sì, ma molto molto meno dei nostri figli che passano dal letto all’aula dentro un suv preriscaldato. E poi in questo andare nell’aria del mattino forse sperimentano qualcosa del loro poter essere liberi.

Su La Repubblica.it, 13 gennaio 2016.

se è l’adulto a fare il bullo tra i banchi

DEV’essere chiarissimo che valutare non ha niente a che vedere con il potere, mai. L’esercizio del potere gerarchico è intrinsecamente rischioso perché la prevaricazione e il sopruso sono spesso uno scivolare inconsapevole, favorito dai caratteri in gioco, dalla paura e anche, molto, da quella che con una certa approssimazione si può chiamare «l’aria che tira», cioè quel che viene socialmente considerato accettabile.

Oggi la prevaricazione e l’aggressività verbale stanno dappertutto. C’è un sadismo dei rapporti gerarchici che non viene nemmeno dissimulato. Un dirigente che alla prima riunione con i suoi collaboratori dice «Ricordatevi che potete essere licenziati», un funzionario che dice en passant «Guardi che posso fare una relazione negativa su di lei al nostro capo», non esercitano un potere ma un sopruso.

Intervenire su un comportamento scorretto è altra cosa dal minacciare di farlo. La minaccia dell’esercizio del potere è intrinsecamente abuso perché vuol mettere l’altro nella posizione di soggezione, sottintende un’asimmetria della relazione che non esiste perché l’asimmetria è nella responsabilità, mai nella dignità.

Prevaricazione e minaccia sono le parole del bullismo. Ma il bullismo riguarda per definizione i bambini e i ragazzi e viaggia con un corredo di attenuanti che vengono dall’età, dalla condizione sociale, dal diritto dell’età giovane di sbagliare, di coprire l’incertezza del sé con comportamenti sgangherati che chiedono il contenimento dell’adulto. Sono attenuanti che non esistono quando si parla di adulti e meno che mai se sono adulti di scuola.

Un ispettore ha un potere di supporto, si chiama proprio così. Vuol dire che se un preside o un docente sbaglia gli dice dove ha sbagliato e lo aiuta a rimediare. O è così o la valutazione dei presidi e degli insegnanti diventa ricatto e se il tutto capita sui social, diventa anche gogna pubblica, moltiplicatore di conflittualità. L’arroganza è contagiosa. Il contrario di tutto quel che serve alla scuola.

Dalla Lombardia comunque, e proprio dal mondo della scuola, arriva in questi giorni anche la “Settimana della gentilezza”, che da qualche anno il preside Alberto Ardizzone, dell’istituto comprensivo di Merate, propone come giusto inizio dei giorni di scuola, e tanti istituti aderiscono a questa iniziativa che non ha niente a che vedere con il bon ton ma che lancia ragazzi e professori in attività pubbliche, giochi gentili e gesti di amicizia. Che dire di una settimana (una piccola eternità) della gentilezza istituzionale? Fra generi? Intergenerazionale? Addirittura politica?

Su La Repubblica.it, 27 agosto 2016.

il presepio: solo una scuola libera può educare alla convivenza

Proibire d’autorità i presepi a scuola è insensato tanto quanto imporli e infatti non c’è circolare, programma ministeriale o linea guida del Miur che lo faccia.
Questo vuol dire che le scuole, sulle scelte didattiche che toccano situazioni sensibili in cui sono in gioco le identità, le appartenenze, il mobile confine fra discriminazione e accoglienza, sono, grazie alla nostra splendida Costituzione, libere. Proprio libere. Libere di proporre e trovare insieme a tutte le componenti della scuola, cioè i ragazzi, i genitori, i docenti, il modo più adatto a costruire la convivenza nelle scuole. Di fare il presepe oppure no.
Quel che capita oggi nelle scuole è un miracolo perché malgrado i tagli di organico, per cui da anni sono state annientate le compresenze necessarie non solo all’integrazione degli alunni immigrati, ma anche al recupero degli italianissimi nostri studenti che arrivano da situazione di svantaggio culturale e sociale, malgrado questo la scuola riesce ad essere quell’ormai unico laboratorio di convivenza che impedisce alla società presente e futura di esplodere.
Chi si è riconosciuto amico sui banchi di scuola non si fa la guerra a vent’anni o trent’anni.
Bene, questo lavoro richiede sapienza, lettura della realtà concreta delle classi, dei genitori, alleanza con il territorio (Comuni, sindaci e servizi). Questo lavoro la scuola lo fa ogni giorno, un miracolo di intrecci e alleanze che non sono buonismo ma sapienza e anche buon senso. È un volare altissimo con mezzi limitati e professionalità infinita.
Nel mentre che un preside o due finiscono a luccicare per un momento sui blog, loro malgrado o forse anche no, a combattere o sostenere il presepio a volte con motivazioni sorprendentemente extrascolastiche, l’acrobatico miracolo di tenuta della scuola va avanti, nella discrezione necessaria al dialogo.
È insensato pensare che un preside vada assunto o licenziato in funzione del suo essere obbediente agli interessi politici di un assessore regionale di turno, o di un sindaco che minaccia controlli sulle attività natalizie delle scuole. Un delirio che confonde competenze, nasconde opportunismi politici tanto malinconici quanto pericolosi perché insabbiano lo spirito critico, la paziente fatica di comprendere i fenomeni.
I presidi buoni sono quelli nelle cui scuole l’integrazione funziona attraverso scelte pedagogiche nate dalle condizioni oggettive della realtà scolastica. Un quarto di quanti cercano rifugio in Europa sono bambini, il 9% dei nostri studenti ha cittadinanza non italiana, ma in molte scuole sono il 50%, e più. Non ci sono due classi uguali, due studenti uguali, due situazioni uguali.
È sbagliato non permettere il presepio a scuola quando il presepio è parte integrante di un percorso scolastico riconosciuto da genitori e bambini, fatto proprio grazie ad appuntamenti negli anni attesi, con il corredo di canzoni e di doni scambiati con le famiglie, il concerto organizzato dopo aver scelto canti e poesie con la prudenza di chi conosce ambiente, persone, storia dei luoghi. E la prudenza non è debolezza, è forza che sa tenere insieme quel che siamo e si apre a quel che riconosciamo diverso ma parte della nostra comune umanità.
Di sicuro però sono altrettanto sbagliate e indecenti le maleparole pelose con cui ci si appropria della profondità di una tradizione cristiana per usarla come una clava demagogica con cui nutrire i propri interessi politici e tentare di stordire la nostra intelligenza.

©LaRepubblica, 30 novembre 2015

così la scuola mette in rete la convivenza

Difficile trovare qualcosa di intrinsecamente sconveniente nell’irruzione dei social a scuola. Nei social si entra (molto moltissimo) ed esce (pochissimo) con precisi gesti volontari. Si interagisce per (libera) scelta. Si scrive in prima persona, nessuno prende il nostro posto. Le relazioni al tempo dei social non sembrano pretendere regole speciali rispetto alle altre forme di relazione: non offendere, non seminar menzogne, rispetta i ruoli, di’ la verità o anche nulla se non la vuoi o puoi dire. Silenzio, se non hai di che parlare.

Ci sono insegnanti che hanno felicemente piegato alla didattica anche WhatsApp, lo strumento nato per chattare più amato dai giovanissimi. Hanno creato gruppi classe con cui scambiano chiarimenti, inviano risultati, variazioni di orario e immagini. 
Gli studenti che creano i gruppi classe o di istituto in fb fanno qualcosa di molto più sensato e meno pericoloso rispetto al viaggiare casuale e virtuale nella rete perché in questo caso gli amici di fb sono i compagni di classe e di scuola, il rapporto c’è dentro e fuori la rete.

Certo son mezzi che pretendono un aggiornamento di attenzione. Tendono, questo sì intrinsecamente, a scavallare i confini. Tutti, prof e studenti, “amici”. Ma anche no, se qualcuno il confine lo tiene. E in un rapporto educativo è l’adulto che lo deve fare. Adulto professore e adulto genitore. Perché poi ci sono i genitori “amici” nei social, spesso più affatturati dei loro figli adolescenti, e allora la fatica di tenere il confine è davvero improba.

E tendono anche, questi social, a farsi percepire come planetaria zona assurdamente franca rispetto alla buona educazione e quando i gruppi dei social sono chiusi, può capitare, alla fine di un rosario di condivisioni, di scoprire la nostra dignità disarcionata da una raffica di insulti senza qualità e verità, scatenati da una piccola coorte di adolescenti senza contenimento o dal più affollato esercito dei loro genitori.

“La cortesia è la capacità di far star bene gli altri”, scriveva Giovanna Axia nel suo rigoroso e scientificamente incantevole “Elogio della cortesia”. La convivenza è la bella vocazione della scuola. A quel formidabile moltiplicatore di narcisismo che è il mondo dei social, gli altri interessano davvero?

Su La Repubblica, 18 febbraio 2015