scuola, l’obbligo fino a 18 anni non è la priorità

Più scuola per quasi tutti e meno scuola per qualcuno? Oppure più scuola ma per tutti? Le notizie estive sulla scuola chiedono una bussola o ci si perde. Accanto al liceo breve che porta al diploma un anno prima adesso la ministra Valeria Fedeli fa una dichiarazione di intenti a favore dell’innalzamento dell’obbligo scolastico da 16 a 18 anni.

In realtà il “diritto all’istruzione e alla formazione per almeno dodici anni o comunque sino al conseguimento di una qualifica di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età” esiste dalla legge 53/2003, ribadito in successivi decreti e poi di fatto sfumato dalla Buona scuola ma non dal Jobs Act che prevede che gli studenti delle scuole statali dai 15 ai 25 anni di età possano accedere a contratti di apprendistato per 36-48 mesi ai fini del conseguimento del diploma. Si tratta dell’avvio di un sistema duale simile a quello tedesco che però in Germania parte da un impianto dell’istruzione completamente diverso e molto legato alle differenze esistenti fra i Länder. Questo significa che qualsiasi nuova idea sulla scuola deve tenere conto dell’esistente e soprattutto di un esistente costituito da novità non ancora a regime e non ancora verificate nella loro efficacia.

Se il diritto dovere all’istruzione e alla formazione non si è ancora realizzato dal 2003 ci sono delle ragioni che vanno esplorate prima di introdurre altri obblighi.

E poi ci sono le priorità. In questo momento la priorità è la dispersione, ancora troppo alta (tra il 15 e il 20% a seconda delle indagini) rispetto ai Paesi dell’Unione europea (11%). Se non riusciamo a tenere i ragazzi a scuola fino a 16 anni non sembra che innalzare l’obbligo a 18 renda la cosa più facile. Altra priorità è l’analfabetismo funzionale, e cioè il fatto che gli italiani giovani e adulti nella bella misura del 28% non sono in grado di comprendere testi d’uso e di tipo argomentativo. L’Italia è penultima in Europa e quartultima al mondo in questa competenza, il che vuol dire che ragazzi e adulti si formano convinzioni politiche e anche pseudoscientifiche (i dibattiti “scientifici” sui social sono spesso surreali) attraverso slogan o appartenenze. Una manna per i demagoghi di tutte le appartenenze, una tragedia per la democrazia. Poi c’è la priorità di una scuola pubblica che non è più fattore di promozione sociale ed economica come è stata fino a un tempo abbastanza recente e anche questa è una tragedia.

E infine c’è la priorità data da un’integrazione culturale assolutamente necessaria, che diventa non solo esercizio di giustizia verso chi arriva da noi pieno di bisogni ma anche di diritti, ma anche un’assicurazione sul futuro della nostra convivenza. Bisogna tenere insieme i ragazzi, italiani e stranieri, a scuola e dare loro una lingua. Questo è (quasi) tutto. Non è poco ma l’obbligo e diritto all’istruzione si misura non in quantità ma, si potrebbe dire, in intensità e qualità dell’esperienza vissuta. In questi anni la scuola non ha avuto un giorno di pace in cui riflettere su se stessa e sull’efficacia delle riforme che si accavallano, e la cui armonizzazione con la normativa esistente è poi lasciata alla mitizzata autonomia scolastica. L’azione educativa può agire nella povertà dei mezzi (e lo abbiamo imparato a fare egregiamente) ma non nella confusione e nell’emergenza continue.

Più istruzione è ovvio che è sempre una cosa buona. Ma se allungare più o meno la frequenza sia una cosa buona è una domanda senza senso. Dipende dalla qualità, dalla bellezza, dalla capacità di offrire esperienze significative che permettano di essere a scuola in modo personale, vigoroso, attivo. E di imparare.

Da La Repubblica, 24 agosto 2017

i 700mila aspiranti precari nell’Italia che non riesce ad abolire la “supplentite”

La scuola è un sogno, vien da dire. In questi giorni il Sidi, il Sistema informativo del ministero dell’Istruzione, è andato in crash sotto la pressione di quasi 700.000 richieste di accesso da parte di aspiranti docenti che devono completare entro il 25 luglio la domanda di aggiornamento del punteggio, oppure la domanda di nuovo inserimento, nelle graduatorie di seconda e terza fascia delle scuole.

Si tratta delle graduatorie cui le scuole attingono per le supplenze, che possono essere lunghe nel caso non frequente che i posti vacanti non siano stati coperti dalle nomine degli Uffici scolastici, oppure brevi, cioè i giorni della malattia di un titolare, per lo più. I quasi 700.000 sono in parte già presenti in graduatoria e in parte nuove immissioni, neolaureati che chiedono di insegnare.
La notizia c’è, nasce dal fatto che agli accessi dei candidati si aggiungono quelli delle segreterie delle scuole che non hanno ancora finito (i tempi erano strettissimi e il sistema funzionava così così) di fare la loro parte nella procedura, e cioè validare al Sidi le domande cartacee che dovevano essere presentate entro il 24 giugno scorso. Si sarebbe potuto prevedere questo assalto al Sidi?

Certo, ma il tutto, al netto del tempo sprecato davanti al computer e delle arrabbiature, non è così grave perché quando le domande sono acquisite, per poterle perfezionare — cioè scegliere sedi di possibile ipotetica supplenza — basta una proroga e la cosa si aggiusta. Tanto più che la “corsa” ha lo scopo opportuno di non dover nominare a inizio anno scolastico docenti provvisori “fino all’avente diritto”. Ma la vera notizia è che ci sono quasi 700.000 persone in Italia che vogliono fare l’insegnante. E che l’attuale sistema di reclutamento glielo permette, o permette di sognarlo, anche se non ci sarà per molti di loro nessuna possibilità di farlo. Oppure sì, perché in effetti è già capitato che si siano assunti docenti di cui non c’era bisogno, soprannumerari dal giorno della firma del contratto.

In forza di una sentenza della Ue che ha applicato allo Stato italiano quello che tutti gli Stati della Ue, anche il nostro, applicano alle aziende, e cioè il divieto di utilizzo sistematico del precariato, a partire dal 2015 sono stati immessi in ruolo i precari storici della scuola, quelli delle Gae, le Graduatorie ad esaurimento, che invece di esaurirsi si erano cronicizzate per la mancanza di concorsi, per modalità confuse di reclutamento, per lo stratificarsi di ricorsi.

Nelle Gae c’erano docenti plurispecializzati bravissimi e docenti che non entravano in classe da anni, appartenenti a classi di concorso in esubero, che alla scuola non pensavano più. Si è trattato della più massiccia assunzione senza selezione del dopoguerra. La politica disse «mai più», da oggi assunzioni regolari, concorsi regolari, modalità limpide. Programmazione dei bisogni. Non è così. Di fronte ai quasi 700.000, con una popolazione scolastica da 5 anni in costante calo, meno 34.426 studenti nel 2015 secondo l’annuario statistico dell’Istat 2016, non è evidente la capacità politica di programmare l’accesso alla professione docente, sulla base della scienza demografica, come più o meno fanno tutti gli altri Stati, con sistemi centralizzati (i concorsi) o aperti (su base territoriale e con criteri differenziati).

E ci si chiede anche se davvero tutti vogliano fare l’insegnante. Il Miur fa sapere ufficialmente che erano previste 300.000 domande, come nei precedenti aggiornamenti delle graduatorie. Ne sono arrivate più del doppio. Si tratta di una professione socialmente poco stimata, come dimostra il fatto che è sottopagata (gli stipendi più bassi d’Europa) e altamente femminilizzata e le professioni “lasciate” alle donne sono quelle meno considerate (ce lo insegna la sociologia). Oppure proprio queste procedure aperte, che di fatto preparano un’altra situazione di precariato, che sappiamo già essere illegittimo, e quindi richiederà sanatorie, sicure perché sono sempre arrivate, inducono a pensare che davvero prima o poi nella scuola si entra e che c’è posto per tutti?

Così non va bene. È un problema che richiede la gestione di una realtà complessa, senza mai cedere alla tentazione di lasciar correre le cose perché la disoccupazione è alta e intanto finché si sogna non ci si dispera.

Il buon governo è anche quello che mostra ai cittadini la differenza fra sogno e illusione.

Da La Repubblica, 19 luglio 2017

maestri incapaci di insegnare

E l’Italia scopre di avere un esercito di maestri incapaci di insegnare
Bologna. Cinquemila respinti agli scritti per elementari e materne. Ma la colpa non è solo loro

La notizia è che in Emilia Romagna solo il 24% dei candidati al concorso per entrare di ruolo nella scuola primaria e il 16,5% dei candidati alla scuola d’infanzia ha superato le prove scritte. Il rigoroso meccanismo dei concorsi che ha letteralmente strizzato le possibilità organizzative dell’amministrazione scolastica (banditi in tempi strettissimi, in corso d’anno scolastico, le commissioni nominate e rinominate vorticosamente, senza esonero dalle lezioni e pagate un nulla) non porterà a coprire i posti disponibili. La stragrande maggioranza delle cattedre non andrà a ruolo.

Il Direttore dell’Ufficio scolastico regionale Stefano Versari dice che per la scuola d’infanzia il problema è stato il livello culturale basso, mentre per la scuola primaria mancava la preparazione didattica.

Si trattava di candidati laureati, la maggior parte di loro già in cattedra da anni. La prova scritta prevede 6 domande, tutte legate a situazioni concrete che richiedono da un lato la conoscenza della normativa e dall’altro la capacità di giocarla creativamente in situazioni concrete di scuola. Il presidente coordinatore delle commissioni alla scuola d’infanzia Emilio Porcaro parla di gravi incompetenze ortografiche, sintattiche e didattiche. Mancava l’abc del buon docente, insomma.

Se il livello è questo, giocare la carta del discredito sulle commissioni esaminatrici non ha senso. Qualsiasi candidato che non sappia scrivere in italiano corretto non può fare il docente e va fermato. E anche se non ha idea di come trasferire nella classe le sue conoscenze. In questo senso il concorso, previsto dalla Costituzione come modalità di reclutamento, fa esattamente il suo dovere. Solo che arriva alla fine di una serie di errori e inadempienze e allora appare ingiusto e scandaloso.
La vicenda del concorso in Emilia Romagna racconta un pezzo della nostra storia. La scuola come lavoro-rifugio. Chiunque pensa di poter insegnare e invece non è vero. Ma lo si pensa perché negli ultimi trent’anni, in mancanza di un sistema regolare di reclutamento, tanti hanno potuto insegnare di fatto, senza concorsi e selezione, per accumulo di punteggio di servizio e titoli i studio, anno dopo anno, con meccanismi di salvaguardia per cui alla fine in qualche modo nella scuola si entra e soprattutto si resta. Inamovibili. Provi un preside a fare una contestazione a un docente, di ruolo o no. Un calvario.
Racconta anche la storia di una mortificazione sistematica delle competenze linguistiche che è comodo ma sbagliato imputare alla scuola. Non è la scuola di massa il problema. È l’ignoranza di massa accettata ed esibita. Si impara la lingua per esposizione, esposizione alla buona lingua, e se la società non legge, non sa parlare e pensare e di questo non si preoccupa e per questo non sente vergogna, se anche la politica esibisce la sciatteria del linguaggio e del pensiero, non c’è scuola che possa trovare un rimedio.

Racconta anche la storia di un Paese confuso, che da un lato vuole giustamente mandare in cattedra chi sa insegnare bene e dall’altro continua ad offrire pochissimo agli insegnanti davvero bravi: scuole con pochi mezzi, stipendi che dicono “il tuo lavoro non vale niente”. I candidati bocciati continueranno ad insegnare da precari, perché i posti ci sono e le cattedre vanno coperte. Il concorso ci rivela un bel po’ di mali della nostra società più che della nostra scuola.

Da La Repubblica, 11 giugno 2017

©laRepubblica

quel salto tra paura e fiducia nel futuro

Il liceo è per sua natura una scuola che investe nel futuro. Il titolo di studio non è immediatamente “professionalizzante”, come si dice. Dopo bisogna pensare all’università. Per cui il dato del Miur che registra la crescita di iscrizioni nei licei può restituirci uno sguardo di fiducia nel mondo che verrà, ed è una buona cosa.

Potrebbe, però, raccontare anche una paura. La paura di un mondo in cui nessun lavoro oggi immaginabile è ragionevolmente abbastanza sicuro e allora conviene scommettere (impegnare le proprie energie giovani) in una preparazione larga e flessibile, un liceo che lasci aperte tante possibilità, dopo. Anche questa è una buona cosa, se è vera.

Chi lavora nella scuola però sa che il liceo è un poco anche un marchio. Una firma. Le scuole registrano un pellegrinaggio dallo scientifico tradizionale, o anche dal classico, verso lo scientifico delle scienze applicate, che è il liceo “senza il latino”, come si dice in modo un po’ grossolano. E allora l’aumento dei licei light (soprattutto delle scienze applicate e sportivo, +0,4% insieme) potrebbe essere uno degli indicatori di quella deriva dell’apparire che affligge il nostro tempo. Mio figlio deve fare un liceo purchessia. E questa non sarebbe una buona cosa.

Sempre restando bene aderenti ai dati del Miur e cercando di interpretarli, un poco preoccupa il fatto che i licei siano scelti dalle regioni in cui di più batte la crisi del lavoro mentre Veneto, Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia sono le regioni in cui i ragazzi ancora scelgono gli istituti tecnici. In queste regioni i tecnici offrono ancora una buona possibilità di impiego dopo il diploma, e sceglierli vuol dire tenere aperte entrambe le strade dopo la maturità: l’università e la professione.

Il calo dei professionali invece è un vero disastro. È il risultato di una scelta politica dissennata fatta quando si è deciso di snaturarli, togliendo quel rassicurante step intermedio che era la qualifica professionale dopo il terzo anno, rassicurante per chi temeva di non poter fare un tecnico di cinque anni e insieme trampolino per chi scopriva che invece ogni passaggio di scuola è una nuova possibilità e che si può essere migliori di come ci si immaginava.

Chi ci ha lavorato sa che gli istituti professionali sono stati il laboratorio di tante buonissime pratiche poi diventate riforme. E ascensore sociale e ammortizzatore sociale e molto altro.

Il liceo non può essere né un bene rifugio né uno status symbol. Deve essere la buona scelta di chi il greco, il latino, la matematica, le scienze li sceglie per passione.

Da La Repubblica, 8 febbraio 2017