quel confine tra prof e studenti

Le scuole, probabilmente anche il Tasso di Roma dove si è aperta un’indagine per molestie a carico di un professore, sono piene di splendidi insegnanti che usano WhatsApp e mail per condividere materiali didattici e documenti, per dare indicazioni dell’ultimo minuto per un viaggio di istruzione e anche per fare gli auguri di Natale e di buon anno. E’ difficile pensare a una regola che ne vieti tout court l’uso nei rapporti con gli studenti. Come del resto è difficile ogni codice di comportamento a scuola, perché si tratterebbe di codificare relazioni.

La regola di non toccare l’allievo è follia alla scuola d’infanzia e anche alle elementari vien da dire. Mentre ha senso alle medie e superiori. Come sempre capita a scuola, la differenza la fanno le persone. In aula si vive una lunga promiscuità non elettiva. Cioè ci si trova vicini a compagni e docenti che non si sono scelti, per molte ore al giorno e per molti anni. Non si può «scappare», come da una relazione affettiva o da un’amicizia. La classe è assegnata. I docenti sono assegnati. Il corso di studi è quello. Il tutto in una condizione di asimmetria di rapporti perché fra docente e studente c’è un’asimmetria di età, di maturità, di potere anche.

Il docente esercita un vero potere in classe. Bisogna averlo sempre presente, per poterlo ben governare. Da un lato c’è il potere del voto, non è poco ma non è quello più importante. C’è soprattutto un potere di «riconoscimento» nei confronti di ragazzi e ragazze che vivono quell’età inaudita e confusa che è l’adolescenza. Età bellissima, se viene rispettata nella sua sgangherata affascinante disarmonia dominata dal desiderio, e la paura insieme, di esserci, di essere visti. E’ vero che a volte sono i ragazzi e le ragazze che spostano il piede oltre il limite, ma sono gli adulti a dover tenere saldissimo questo limite, a leggere il bisogno senza assecondare un travalicare che sarebbe un tradimento del ruolo che viene loro assegnato dalla fiducia della società e della famiglia e anche della richiesta stessa dei ragazzi che mettono sì alla prova l’adulto, ma per potersi riconoscere quel che sono, ragazzi e ragazze con adulti vicini che danno loro fiducia e valore ma non si confondono con loro trasportandoli in modo manipolatorio nel proprio mondo e nei propri bisogni.

Annullare le distanze è questione di un attimo. I ragazzi vivono letteralmente in simbiosi con WhatsApp e un attimo è inviare un messaggio di cui pentirsi, un attimo rispondere a un messaggio di cui l’altro si è già pentito, in un circolo in cui la rapidità annulla il tempo del pensiero. Anche qui, è l’adulto a dover tenere il punto.

Quanto di personale ci può essere nelle comunicazioni fra professori e studenti? Nessuna relazione educativa funziona se non c’è molto di personale e del resto a scuola non ci dovrebbe essere nemmeno il sospetto di rapporti inadeguati. Eliminare il sospetto è quasi impossibile, perché oggi la società sospetta di chiunque per principio. E allora bisogna che i comportamenti dei docenti non alimentino in nessun modo il sospetto e nello stesso tempo non rinuncino alla libertà di rispondere alle proprie emozioni. Nessun gioco, nessuna ambiguità. C’è da dire che le nuove tecnologie conservano una traccia pressoché eterna degli scambi che ospitano e allora vien da pensare che quelli che usano WhatsApp per fare proposte improprie o sono i più sprovveduti o, probabilmente, i più patologici. Non sarà un codice ministeriale a fermarli. Insegnare è un lavoro che richiede doti umane particolari, bisognerebbe che le procedure di accesso alla professione ne tenessero ben conto. La gestione delle relazioni a scuola è una questione di maturità personale non di regole.

Da La Repubblica6 gennaio 2018

la scuola che ascolta

L’Ufficio scolastico della Toscana chiede ai presidi di segnalare «casi di abbandoni o assenze di rilievo» riconducibili a gravidanze «magari celate» o a «postumi da parto». La richiesta è riservata e per la risposta si raccomanda l’«ovvia riservatezza». C’è un tale groviglio in questa comunicazione che nemmeno a costruirla a tavolino come caso di studio si sarebbe potuto far meglio. Intanto, la richiesta «riservata» mandata via mail a un’amministrazione è un ossimoro. Era più riservato il plico consegnato nelle mani di un fidato cavallaro all’epoca di Isabella d’Este. E infatti quando la Polizia ha un preciso sospetto viene direttamente a scuola a parlare.

Poi, la comunicazione chiede proprio di contravvenire agli obblighi di riservatezza della scuola. La gravidanza è in sé stessa un dato riservato e se si fosse accompagnata a un qualche sospetto di reato (violenza, ad esempio) il preside avrebbe già comunicato con i canali opportuni: i servizi sociali o la Polizia. Infine c’è il linguaggio fatto di «casi», «fattispecie», «induzioni » e segnalazioni, più qualche malinconica incongruenza logica fra gravidanze «magari celate» ma che alla fin fine si vedono.

Non sono parole di scuola e ci siamo abituati da quando gli uffici scolastici sono affidati soprattutto a funzionari che provengono dalla carriera amministrativa e non dalle aule. Ci vuole la pazienza di lasciare da parte consapevolmente, è un vero atto di volontà e di ragione, la tentazione massimalista che spingerebbe a dire che non c’è riservatezza che tenga di fronte a un bimbo abbandonato in una discarica (lo immaginiamo infanticidio, ma non lo sappiamo. Passo indietro da fare anche qui).

La componente emozionale della notizia non giustifica nessuna scorciatoia rispetto al fatto semplice che la scuola è un ambiente protetto, che vive di fiducia, che è abitato da ragazzi e ragazze giovanissimi, nei quali bene e male sono sempre vicini e confusi. Tutti i giorni chi lavora a scuola incontra situazioni che lo interrogano e deve distinguere fra la chiacchiera e il dubbio fondato. E dobbiamo decidere se far prevalere la paura e il sospetto e, ad esempio, chiamare periodicamente a scopo preventivo le forze dell’ordine con corredo di cani antidroga e di gazzelle a raggiera intorno alla scuola, oppure se farlo solo quando si hanno informazioni fondate e attendibili, magari dai ragazzi stessi che mettono in atto forme di autoprotezione perché si sentono una comunità.

Si tratta di decidere se partire dalla sfiducia oppure no. I presidi e i docenti quando è il caso denunciano sempre. Quante indagini di violenza sono partite dalla scuola. Prima di essere ingaggiata nell’attività di intelligence la scuola ha il diritto di muoversi nello spazio delle relazioni coltivate, dell’ascolto con gli occhi bene aperti e dell’accompagnamento paziente, perché sa che come ogni persona i ragazzi vivono di fiducia e possono anche volare se non gliela togliamo per una qualche forma di spaventata prevenzione.

Da La Repubblica29 dicembre 2017

perché i giovani con capiscono la sostanza del fascismo

Non c’è scuola italiana che non lo insegni il fascismo. Il problema è farlo percepire come qualcosa di tremendo, reale e attuale. Attuale non perché siamo di fatto già circondati da un nuovo fascismo ma perché il fascismo è una reale possibilità delle società avanzate, una scorciatoia della politica e anche della mente e sta rialzando la testa e glielo lasciamo fare. Fascismo è un’esperienza politica, sociale e umana illiberale e violenta.

Un problema è che per i ragazzi la sostanza illiberale del fascismo è inimmaginabile. Non tanto perché crescono immersi nelle libertà fondamentali dell’individuo e del cittadino: parlano quando vogliono e di quel che vogliono, si spostano dove li porta il desiderio, si ritrovano, si aggregano e disaggregano. Protestano. Ma soprattutto perché si percepiscono illimitati. Questa libertà di espandersi non conosce il limite dato, ad esempio, dal divieto di turpiloquio, di offesa, di aggressività verbale. Semplicemente dal rispetto dell’altro.

È per molti di loro inimmaginabile che tutto non sia assolutamente sempre ovvio nel momento in cui lo pensano buono per se stessi e così è per i loro genitori, per la politica, per la società. E quando un piccolo limite oggettivo si concretizza, come il numero chiuso a scuola o un’assemblea negata per giusto motivo, scatta la rabbia di lesa maestà e la rabbia è buona nemica del pensiero. Quanto alla sostanza violenta del fascismo, anche qui ci si scontra con qualcosa di diffuso che è la profonda accettazione sociale della violenza.

La violenza dei rapporti sociali, anche quelli più nobili come il confronto politico oppure sportivo, è parte della nostra vita e la violenza fisica non spaventa davvero perché c’è un immaginario costruito da film, videogiochi, giochi di ruolo che ci fa concepire sempre dalla parte di chi la forza ce l’ha e la esercita sull’altro e l’altro è spesso solo una categoria (straniero, avversario politico o sportivo) e non una persona e quindi possiamo ( possono) non sentire l’offesa della violenza agita. Per cui studiano il fascismo illiberale e violento con la stessa partecipazione con cui studiano lo schiavismo nelle civiltà antiche. Deplorevole ma non ci (li) riguarda.

E allora come si fa? La scuola un po’ di strumenti ce li ha. Il tempo, ad esempio. Se resiste alla pressione del risultato ad ogni costo e non insegue le attese di tutti, ha 10 spesso 13 anni di tempo in cui scegliere di far conoscere davvero, attraverso lo studio serio e documentato, i meccanismi con cui il fascismo allora e la tentazione fascista ora sono riusciti e riescono ad assopire il senso critico, a illudere di grandezze millantate. Anni in cui far sperimentare davvero la convivenza, mostrare un esercizio della libertà che è soprattutto partecipazione che cambia le cose e non sopraffazione. Decostruire attraverso la consapevolezza la percezione malata di una libertà come infinita espansione di sé e come infinita distrazione da sé. Non inseguire il mondo ma conoscerlo nel dolore delle sue ingiustizie. La violenza del pregiudizio politico e razziale è sorella della violenza che ci fa sentire perennemente (pre)giudicati da stereotipi di successo, di posizione sociale, di possesso.

Complicato? Sì e no. È una vera e propria resistenza quella a cui la scuola è chiamata e in molti a scuola la stiamo facendo. Chi altri la sta facendo? Poi certo si può essere convinti che non ci sia sostanziale progresso sotto il sole e che siamo destinati a ripetere e ancora ripetere gli errori del passato, ma anche da questa posizione di disincanto chi sta tutto il giorno con i ragazzi sa che provare insieme a costruire o anche solo a resistere è molto meglio che scivolare nella connivenza con il male della sopraffazione.

Da La Repubblica5 dicembre 2017

se è il tribunale a doverci dire che un bullo si può bocciare

C’è voluto il Tar del Piemonte, per dirci che la scelta di un istituto superiore della Val di Susa di bocciare per un 5 in condotta il bullo della scuola è legittima. I genitori del ragazzo avevano presentato ricorso. Eppure, la legge sul punto è chiarissima: il 5 in condotta porta alla bocciatura.

La premessa necessaria è che a un 5 in condotta si arriva per gradi: è la fine, non l’inizio di una storia. Ci dev’essere un anno di comportamenti problematici, recidive, interventi tentati. E in effetti nel verbale della scuola piemontese si legge che nei comportamenti dello studente, iscritto alla seconda, c’era stato «un crescendo di gravità», che aveva creato nei compagni «un clima di tensione e, in alcuni casi, paura». Facile dire: così si criminalizza un singolo. No, quel ragazzo ha ancora diritto alla nostra fiducia, ma dall’altra parte c’è una collettività da tutelare. Sarebbe terrificante pensare che vadano salvaguardati solo i diritti dei “buoni”, in una scuola che ha il compito di lavorare soprattutto al fianco di chi ha più bisogno. Ma uno solo non può tenere in scacco la libertà di molti. Allora il punto oggi non è che qualcuno è stato bocciato, che da qualche parte una storia di scuola non ha funzionato. Ma è capire cosa spinga dei genitori (che questa storia la conoscono fin troppo bene) a tentare di bypassare questo punto fermo, che per il ragazzo potrebbe diventare un’occasione di crescita. E a dire: “vediamo se riusciamo a fargliela sfangare anche stavolta”, anziché piuttosto: “abbiamo un problema, mettiamo in gioco tutte le nostre energie per risolverlo”.

Dietro dev’esserci o una sfiducia enorme nella scuola o un’incapacità enorme di leggersi, e leggere le dinamiche dei nostri ragazzi. Non so cosa sia peggio. Oggi è fin troppo comune il tentativo di salvare comunque la forma della storia scolastica di un figlio: ma la sostanza resta, non si può eliminarla. Certo: un ricorso è un modo di attivare la rabbia, che attenua il dolore inevitabile di fronte a questa decisione della scuola. Ma una famiglia dovrebbe ricordare che a prenderla è stata una comunità educante, che nel farlo sa fin troppo bene a cosa si espone. E il fatto che sia stata presa all’unanimità ancor più dovrebbe indurre a prenderne atto, anziché combatterla.

Tanti genitori oggi faticano ad accettare che il figlio non sia esattamente come lo avevano sognato. E non stiamo dicendo che sia cattivo, non è quello il punto. Anzi: è un ragazzo, questo è fondamentale. E non va mai pensato irrecuperabile, perché a 15 anni tutto è ancora possibile. Ma proprio per questo dovrebbe intervenire una sorta di fiducia collettiva, che porti a dire: la scuola ha dato a mio figlio un segnale. Mi fido, ora che facciamo?

Da La Repubblica7 ottobre 2017