Il «mondo è cambiato. Dobbiamo cambiare noi». Il mondo cambiato è quello dell’Occidente dopo l’11 settembre 2001. Il libro è Lettere contro la guerra, di Tiziano Terzani (Longanesi, Milano 2002). Sette lettere scritte nei tre mesi successivi il crollo delle Torri Gemelle, durante le tappe di un viaggio affrontato d’impulso, da un giorno all’altro, a vedere la guerra di Bush nei luoghi in cui cadevano le bombe, con il vantaggio di conoscere benissimo quei luoghi perché la professione di giornalista e un’instancabile passione per l’umanità e per le sue storie glieli aveva fatti percorrere e anche abitare.
Quando Trump qualche settimana fa ha annunciato il ritiro dall’Afghanistan gli occhi hanno cercato questo libro sullo scaffale inseguendo un ricordo chiarissimo, un racconto folgorante che Tiziano Terzani aveva offerto proprio in quei mesi, al principio di tutto, di questo tutto che è stata l’ultima guerra afghana. Lontana e dimenticata, tranne per qualche scossa quando un attentato arrivava alle pagine dei giornali a ricordarci che è una «guerra che non si può vincere», tremenda definizione di David Grossman riferita alla guerra israelo-palestinese, gemella di quella afghana per ingiustizie fatte e patite.
Il tempo in cui Terzani scrive è un tempo in cui si raccontava per avere visto davvero e non per aver fatto il giro del web. E i giornali potevano ancora pubblicare lunghe narrazioni, minute e documentate, una vertigine di storia, geografia e geopolitica, e aiutare conoscenza e pensiero.
«Lettera da Kabul»: «La vista è stupenda. La più bella che potessi immaginarmi. Ogni mattina mi sveglio e gli occhi mi si riempiono di tutto quel che un viaggiatore diretto qui ha sempre sognato: la mitica corona delle montagne di cui un imperatore come Babur, capostipite dei moghul, avendole viste una volta, ebbe nostalgia per tutta la vita; la valle percorsa dal fiume, il vecchio bazar dei Quattro portici dove, si diceva, è possibile trovare ogni frutto della natura e del lavoro artigiano; la moschea di Puli-i-Khristi, il mausoleo di Timur Shah…» (99).
È il 19 dicembre 2001. I talebani hanno abbandonato la città dopo meno di un mese dall’inizio dei bombardamenti americani. La vista dall’alto è stupenda ma nel ricordo, perché di tutto quel che i suoi libri hanno raccontato «non restano che i resti: la fortezza è una maceria, il fiume un rigagnolo fetido di escrementi e spazzatura, il bazar una distesa di tende, baracche e container: i mausolei, le cupole, i templi sono sventrati» (100).
È la guerra e insieme è «il destino a cui l’uomo, per sua scelta, sembra essersi votato: con una mano costruisce, con l’altra distrugge» (100). Ma non è un vero destino. Terzani è un passionale però non fino a pensare che l’umanità non abbia nelle proprie mani la possibilità di cambiare.
La strada è la conoscenza ovvero la ricerca ostinata di comprendere le ragioni degli altri. E gli altri, Terzani li racconta fino all’ossessione, non vogliono essere come noi, vogliono vivere un’esistenza diversa da quella della nostra razza «grassa e sazia» impegnata ad aggiungere dolore e miseria «al già stracarico fardello di disperazione della gente più magra e affamata del pianeta» (60).
Nella «Lettera da Quetta» c’è un’altra immagine. Una sosta di viaggio, un passaggio fra i monti nel momento della preghiera, una vista di paradiso serale, in direzione dell’Afghanistan, la fila di camion che si è fermata, i camionisti che hanno disteso i loro tappetini da preghiera sulla polvere e «come ritagli neri di carta contro quell’immensità» s’inchinavano verso Occidente sapendo di compiere un gesto che altri milioni di musulmani stavano facendo in quel momento, «stessi gesti, stesso pensiero diretto allo stesso indescrivibile dio che li tiene tutti uniti in una comunione che a noi ormai sfugge» (91).
Un’unica voce magari delirante tiene legati i fedeli musulmani ogni venerdì, nessuna voce si alza dalle chiese la domenica, nemmeno la domenica dopo l’11 settembre quando Terzani aveva fatto il giro delle chiese fiorentine. Discorsi vaghi, tutti uguali, nulla sull’attualità.
Non si tratta d’invocare la rabbia e l’orgoglio dell’Occidente. Si tratta di avere il coraggio di parlare parole nuove: non riescono a «far sentire con fermezza un discorso di pace» (92).
Nella «Lettera da Peshawar» Terzani parla, dopo un lungo incontro con fanatici della jihad, di «una società carica d’odio» (72). Ma lo è meno la nostra che per vendetta bombarda un paese già distrutto da vent’anni di guerra? Colpo e contraccolpo. Azione e reazione. L’umanità può fare di meglio.
Nell’ultima lettera dal suo rifugio nell’Himalaya Terzani torna al filo che ha percorso tutte le lettere, la resistenza del pensiero che comprende la diversità del mondo. «La guerra al terrorismo viene oggi usata per la militarizzazione delle nostre società, per produrre nuove armi, per spendere più soldi nella difesa. Opponiamoci, non votiamo chi appoggia questa politica» (179). Oggi era il 2002. Troppo tardi ora? Proprio no.
«Visti dal punto di vista del futuro, questi sono ancora giorni in cui è possibile fare qualcosa. Facciamolo» (181).
Da Il Regno, 15 febbraio 2019.