L’esame di stato può regalare molte RiLetture. Non sempre, non tutti gli anni. Ci sono professori che hanno paura a dare un libro intero da leggere in quinta. In un’Italia che non legge, un libro intero è quasi un’irresponsabile pretesa, con tutto quel che c’è da studiare per l’esame (qui bisognerebbe aprire una riflessione sullo spezzatino di testi filosofici e letterari che noi impartiamo ai ragazzi a scuola, e anche forse su sant’Ignazio di Loyola e il suo Non multa, sed multum ma, come si dice, sarebbe un fuoritema. O un «OT», secondo la lingua mondiale dei social).
Quest’anno è andata bene, benissimo. Una classe ha portato la lettura integrale de L’Agnese va a morire, di Roberta Viganò (Einaudi, Milano 2014). Un colpo al cuore in tempi di leggi (ingiuste?) e di disobbedienze civili canzonate, offese, messe al muro o frullate dentro l’infido gioco di convenienze in cui tutte le azioni sono sospette e tutte le intenzioni sono inconfessabili.
L’Agnese un giorno si trova a essere partigiana senza intenzione ma non per caso. Per caso vuol dire senza volontà. Lei invece ha voluto, ha voluto fermamente seguire l’elementare semplice senso di giustizia di cui si ha bisogno come l’aria se si vuole continuare a vivere una vita decente. E nell’Italia del settembre del 1943, pericolosa e confusa ma non così confusa da non poter distinguere la parte giusta, l’Agnese sceglie.
Sceglie di portarsi a casa un soldato giovane, sbandato e allegro per la fine della guerra, di farlo mangiare, di proteggere il suo sonno, di farlo scappare per tempo quando arrivano i tedeschi a cercarlo. La tragedia arriva per la delazione delle figlie della vicina di casa, la Minghina, più stupide che davvero cattive ma si sa che la stupidità è pericolosissima.
I tedeschi non trovano il soldato ma si portano via il marito dell’Agnese, il Palita, fragile e amato, tutt’uno con lei, non hanno avuto figli e hanno costruito un’unità semplice, intesa di poche parole e tutta sostanza.
E la sera il mondo senza di lui le pare un altro, estraneo. «Ma non malediceva il ragazzo disperso che cercava la via di casa, né si rammaricava di averlo aiutato. Lui non aveva colpa: soffriva della guerra, aveva fame e sonno, era giusto dargli da mangiare e da dormire. Nasceva invece in lei un odio adulto, composto ma spietato, verso i
tedeschi che facevano da padroni, verso i fascisti servi, nemici essi stessi fra loro, e nemici uniti contro povere vite come la sua, di fatica, inermi, indifese» (20).
Palita morirà prima di arrivare in Germania e lei prende il suo posto fra i compagni. Porta messaggi ed esplosivi, in bicicletta, nascosti fra la biancheria lavata. Una grossa quasi vecchia lavandaia di paese è invisibile. E quando un tedesco ubriaco le uccide la gatta per gioco, la gatta di Palita, che lui le aveva affidato nel partire verso la morte, e ancora una volta c’è di mezzo la Minghina, lei uccide con un colpo in testa il tedesco, un’azione che la sorprende, «che le somigliava tanto poco, che era venuta dal di fuori, come un comando estraneo» (54). E si unisce ai partigiani.
C’è un dialogo fra Agnese e la Minghina. Le figlie se la intendono con i fascisti e ne ricavano soldi e regali. «Le mie figlie vanno là per lavorare. Sono stati loro a chiamarle. Quando loro comandano lo sapete che non si può dire di no. – Hanno chiamato anche me e ho detto di no, – disse l’Agnese» (42).
Si può dire di no. Quando i fascisti le chiedono di lavare le cose dei tedeschi lei si dà ammalata. Si può dire in molti modi di no. Resistenza passiva. Resistenza attiva, militante. Agnese passa dall’una all’altra, non la sfiora nemmeno la tentazione della connivenza. «Il suo contributo alla lotta clandestina prese il carattere di un lavoro costante, eseguito con semplicità, con disciplina, come fosse sprovvisto di pericolo» (43).
Ci sono due immagini. All’inizio della storia verso sera Agnese raccoglie il bucato «già secco, odoroso di sapone: sganciava le mollette, tirava giù svelta un capo dietro l’altro, se li buttava sulla spalla… sembrava che portasse in braccio una piccola montagna di neve» (23).
Alla fine, quando il maresciallo le spara «da vicino negli occhi, sulla bocca, sulla fronte, uno, due, quattro colpi» e lei cade a terra con il viso fracassato e tutti intorno scappano «l’Agnese restò sola, stranamente piccola, un mucchio di stracci sulla neve» (239).
La poesia del lavoro, che può essere duro, ma pieno di dignità e bellezza. L’orrore assoluto della morte violenta, un trionfo sguaiato del male che ha la forza delle cose realmente accadute e impensabili se non si fossero imposte con il loro accadere. In mezzo, fra le due immagini, c’è la resistenza di Agnese, storia di violenza che non le piace mai, la rende piena di stanchezza, come si dice in tante parti del romanzo.
Vittime tutti della guerra e di troppe azioni servili e più ancora di omissioni colpevoli. Agnese grandissima che dice di no resta un’immagine di eroismo semplice, l’elementare adesione al bene che ci rende umani.
Da
’Agnese va a morire, di Roberta Viganò (Einaudi, Milano 2014). Un colpo al cuore in tempi di leggi (ingiuste?) e di disobbedienze civili canzonate, , 15 luglio 2019.