Infodemia. È una parola che nasce dall’unione di due: «informazione» ed «epidemia». È la malattia diffusa e contagiosa che colpisce le persone esposte a una quantità enorme di informazioni difficilmente controllabili o per la complessità del problema, o per la leggerezza con cui si divulgano notizie da fonti incerte o perché qualcuno diffonde intenzionalmente falsità, per ingannare, per leggerezza, megalomania, patologia, protagonismo, secondi fini. Il coronavirus e la guerra l’hanno scatenata, e noi siamo esposti sia a prendere la malattia sia a diffonderla. E non va bene, perché nell’infodemia la prima vittima è la verità e la seconda, terza, millesima siamo noi, confusi e dominati dalla paura.
Eppure la parola è cosa buona, è custode dell’essere; la parola essenziale, riportata all’origine, liberata dalle nostre manipolazioni, asciugata dalla retorica, diventa poesia, linguaggio del Divino. Quanto ci siamo commossi, nella nostra vita, davanti alla poesia. La parola è Dio. Il Verbo. La Bibbia è un libro di libri che si occupano continuamente del potere buono e tremendo delle parole. Dalla parola creatrice, nella Genesi, alla buona novella nel Nuovo Testamento. Il nostro Dio parla, alza la voce, consola, accoglie, ha parole d’ira e d’amore. La Bibbia conosce bene il pericolo rappresentato da parole pronunciate in modo sconsiderato. I libri dei Proverbi, della Sapienza e dei Salmi traboccano di raccomandazioni: «La bocca dello stolto è un pericolo imminente» (Pr 10,14); «Le labbra menzognere sono un abominio per il Signore» (Pr 12,22).
Ma parlare si deve. I profeti sono inviati a parlare e a volte cambiano il corso della storia. Gesù annuncia il Regno. Gli Apostoli sono mandati a predicare affinché le persone possano convertirsi al bene. Qual è la parola buona? Quale la voce giusta per il tempo nostro malato di infodemia? Dobbiamo chiedercelo, perché davvero non si può tacere eppure parlare è molto difficile. Non c’è una risposta buona per tutto. È come se ciascuno di noi dovesse reimparare da capo a parlare e a tacere. Provo a guardare a Maria. Un esercizio di contemplazione. Lei parla sei volte, nel Vangelo. Due volte quando l’Angelo le annuncia la nascita del Bambino e lei risponde: «Com’è possibile? Non conosco uomo». Obiezione sensata e razionale. Quale che sia il messaggero, la ragione non viene meno e deve chiedere, chiedere, chiedere. E poi, subito dopo la risposta dell’Angelo, risposta coerente con la sua fede e con la realtà delle cose, perché davvero, come dice l’Angelo, Elisabetta, che tutti credevano sterile, sta aspettando un bambino, lei Maria risponde: «Eccomi». Eccomi ci sono, non mi sottraggo.
Poi ancora Maria parla con le parole del Magnificat, cosmico inno di lode al tempo che viene, rovesciamento del potere del mondo a favore degli umili. Umile è attributo che deve riconoscere il mondo, nessuno può darselo, diceva Lutero nel bellissimo Commento al Magnificat. Poi, ancora, Maria parla dopo aver perso Gesù ragazzino per tre giorni: «Perché ci fai questo?», chiede. Una domanda piena di dolore e di affetto. Se amiamo possiamo chiedere, anche a Dio, sempre. E poi parla alle nozze di Cana e sollecita la manifestazione al mondo del Messia: «Non hanno vino!», non hanno la gioia, direbbe il cardinal Martini. E poi, le ultime sue parole ai servi, a noi, a tutto il mondo: «Fate quel che vi dirà». Fidatevi, seguitelo, innamoratevi di lui. Parlare così. Seguendo razionalità, disponibilità, umiltà, ancora razionalità, e poi attenzione al bisogno del mondo, gioia come bisogno fondamentale dell’uomo. Infine con lei: «Fate quello che vi dirà». Sequela umile, pacifica, determinata, fino alla fine. Forse così si può parlare.
Da Messaggero di Sant’Antonio, 9 maggio 2022.