Ci vuole tanta disperazione e insieme tanta forza per scappare. Andare via, forse lontano senza sapere dove, per un tempo che non conosciamo, portando il vuoto di uno strappo creato da noi, sì, ma non lo si può conoscere prima, e allora quando ci si trova dentro arriva la paura, perché i desideri sono confusi, potenti ma confusi, e non solo quando si è giovani, e non è mai così limpido il voler partire. Spesso è un atto d’impulso. Se bisogna salvarci dalla violenza si guarda poco indietro, è più facile andare, ma a volte capita di scappare da quello che sembra malamore, e magari è solo amore mal compreso e male espresso. Confusamente lo sappiamo. E arriva il peso per un dolore che non si è più così sicuri di aver voluto dare. A dei genitori che fanno quel che possono, anche loro. Allora la fuga può rallentare e invertire il passo.
E poi c’è la solitudine. La fuga recide per la prima volta la connessione in cui oggi tutti i ragazzi abitano naturalmente. E’ faticoso stare davvero soli.
Il trenta per cento è proprio tanto. I risultati dell’”Indagine conoscitiva sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia”, curata da Eurispes e Telefono Azzurro, ci dicono che un giovanissimo su tre nel 2012 ha provato l’esperienza della fuga da casa.
Tra la fuga senza parole, che spalanca la voragine del tutto possibile nella immaginazione dei genitori, e il “me ne vado” sbattendo la porta, ci sono i molti gradi di un disagio che non sa trovare la strada del dire e deve agire. La maggior parte di queste fughe è breve. Poi questi ragazzi tornano, da soli o accompagnati dall’amico che ha saputo dove cercarli. Graziealcielo è così, perché i giovanissimi che si allontanano volontariamente da casa rappresentano quasi il 25% dei ragazzi poi scomparsi. Vuol dire che il pericolo là fuori esiste davvero, che non si può proprio sottovalutare questo voler scappare, anche quando dura poco. E il numero di ragazzi in fuga è triplicato rispetto al 2011. Possibile? La maggior parte di loro dice di scappare perché non va d’accordo con i genitori, altri perché si sentono incompresi, o perché vengono limitati nella libertà che vorrebbero, pochi questi. Ma ogni storia è unica e a minimizzare si rischia di non riconoscere quel che di nuovo deve per forza esserci, se così tanti si raccontano in fuga. Raccontano un desiderio certamente, ma quale? Non è più solo o soprattutto la ricerca di una maggiore libertà. Scontri con i genitori sul piano delle ideologie, come sicuramente è accaduto in altri tempi, proprio non sembra. Vorrebbe dire che si crede che vale la pena, che ci sono tesi da sostenere. Ma non si scappa per eccesso di dialogo.
Scappare è un violento, inatteso farsi presente nella forma dell’assenza. Ci si può chiedere cosa sia l’assenza oggi. La vera assenza. Il non dar notizie di sé.
Forse questi giovanissimi lo sanno che l’assenza è una forma potentissima di presenza, per dei genitori abituati ad averli sempre a portata di sms. Forma di presenza tremenda certo, e intollerabile. Anche per poche pochissime ore, per un’ora, perché si precipita nell’apocalisse di un silenzio che mette in scacco completo la razionalità. Tutto è improvvisamente possibile. La rete rassicurante che la connessione garantiva non c’è più. Resta la rete della memoria, recuperare frasi e frammenti e sguardi appena intercettati, espressioni lasciate a metà, per riuscire a capire dove mai potrà essere questo figlio scomparso. E può capitare di scoprire che l’età distratta non è più oggi l’adolescenza tiranneggiata felicemente dai mille desideri, ma è il nostro essere adulti in corsa, forse proprio in fuga. Noi in fuga dall’ascoltare davvero i figli, le persone che sono. Piene di mille sé adolescenti che chiedono di essere riconosciuti. In fuga noi dal credere che per loro c’è un futuro migliore di quello che non abbiamo proprio saputo preparare.
Forse questo piccolo esercito di figli in fuga allora ci dice qualcosa di molto semplice: Noi ci siamo, noi ci siamo. E voi, ci siete?
Su La Repubblica, 5 febbraio 2013