ragazzi in fuga per bisogno d’amore

Ci vuole tanta disperazione e insieme tanta forza per scappare. Andare via, forse lontano senza sapere dove, per un tempo che non conosciamo, portando il vuoto di uno strappo creato da noi, sì, ma non lo si può conoscere prima, e allora quando ci si trova dentro arriva la paura, perché i desideri sono confusi, potenti ma confusi, e non solo quando si è giovani, e non è mai così limpido il voler partire. Spesso è un atto d’impulso. Se bisogna salvarci dalla violenza si guarda poco indietro, è più facile andare, ma a volte capita di scappare da quello che sembra malamore, e magari è solo amore mal compreso e male espresso. Confusamente lo sappiamo. E arriva il peso per un dolore che non si è più così sicuri di aver voluto dare. A dei genitori che fanno quel che possono, anche loro. Allora la fuga può rallentare e invertire il passo.

E poi c’è la solitudine. La fuga recide per la prima volta la connessione in cui oggi tutti i ragazzi abitano naturalmente. E’ faticoso stare davvero soli.

Il trenta per cento è proprio tanto. I risultati dell’”Indagine conoscitiva sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia”, curata da Eurispes e Telefono Azzurro, ci dicono che un giovanissimo su tre nel 2012 ha provato l’esperienza della fuga da casa.

Tra la fuga senza parole, che spalanca la voragine del tutto possibile nella immaginazione dei genitori, e il “me ne vado” sbattendo la porta, ci sono i molti gradi di un disagio che non sa trovare la strada del dire e deve agire. La maggior parte di queste fughe è breve. Poi questi ragazzi tornano, da soli o accompagnati dall’amico che ha saputo dove cercarli. Graziealcielo è così, perché i giovanissimi che si allontanano volontariamente da casa rappresentano quasi il 25% dei ragazzi poi scomparsi. Vuol dire che il pericolo là fuori esiste davvero, che non si può proprio sottovalutare questo voler scappare, anche quando dura poco. E il numero di ragazzi in fuga è triplicato rispetto al 2011. Possibile? La maggior parte di loro dice di scappare perché non va d’accordo con i genitori, altri perché si sentono incompresi, o perché vengono limitati nella libertà che vorrebbero, pochi questi. Ma ogni storia è unica e a minimizzare si rischia di non riconoscere quel che di nuovo deve per forza esserci, se così tanti si raccontano in fuga. Raccontano un desiderio certamente, ma quale? Non è più solo o soprattutto la ricerca di una maggiore libertà. Scontri con i genitori sul piano delle ideologie, come sicuramente è accaduto in altri tempi, proprio non sembra. Vorrebbe dire che si crede che vale la pena, che ci sono tesi da sostenere. Ma non si scappa per eccesso di dialogo.

Scappare è un violento, inatteso farsi presente nella forma dell’assenza. Ci si può chiedere cosa sia l’assenza oggi. La vera assenza. Il non dar notizie di sé.

Forse questi giovanissimi lo sanno che l’assenza è una forma potentissima di presenza, per dei genitori abituati ad averli sempre a portata di sms. Forma di presenza tremenda certo, e intollerabile. Anche per poche pochissime ore, per un’ora, perché si precipita nell’apocalisse di un silenzio che mette in scacco completo la razionalità. Tutto è improvvisamente possibile. La rete rassicurante che la connessione garantiva non c’è più. Resta la rete della memoria, recuperare frasi e frammenti e sguardi appena intercettati, espressioni lasciate a metà, per riuscire a capire dove mai potrà essere questo figlio scomparso. E può capitare di scoprire che l’età distratta non è più oggi l’adolescenza tiranneggiata felicemente dai mille desideri, ma è il nostro essere adulti in corsa, forse proprio in fuga. Noi in fuga dall’ascoltare davvero i figli, le persone che sono. Piene di mille sé adolescenti che chiedono di essere riconosciuti. In fuga noi dal credere che per loro c’è un futuro migliore di quello che non abbiamo proprio saputo preparare.

Forse questo piccolo esercito di figli in fuga allora ci dice qualcosa di molto semplice: Noi ci siamo, noi ci siamo. E voi, ci siete?

Su La Repubblica, 5 febbraio 2013

perché il registro elettronico è un’illusione educativa

Sembra una formula magica di minaccia, invece è un progetto di innovazione che coinvolge tutta la scuola italiana. Prevede iscrizioni e certificati online, pagelle elettroniche, registri di classe e personali in formato elettronico. Si chiama “Piano per la dematerializzazione delle procedure amministrative in materia di istruzione, università e ricerca e dei rapporti con le comunità dei docenti, del personale, studenti e famiglie”. Da questo anno scolastico tutto ciò è obbligatorio, però nel modo in cui sono obbligatorie le innovazioni in Italia, ovvero “senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Il che vuol dire che abbiamo tutto il tempo di farci sopra una riflessione.

Si può parlar male del registro elettronico? O almeno guardar dentro a qualche suo effetto collaterale?
La domanda non è se funziona o non funziona. Alla fine certo che sì. Dopo aver trovato le risorse per acquistare o affittare i notebook per tutte le aule di tutte le scuole del regno e per pagare i contratti alle aziende incaricate di risolvere i pluriquotidiani problemi tecnici e di garantire assistenza continua, dopo aver formato tutti gli insegnanti, governato le rivolte per lo stress iniziale da voti scomparsi e da password smarrita, blindato il sistema contro allievi-piccoli-hackerinformatici, alla fine funziona. Poi è un attimo trovare il quadro complessivo dei voti, la media della classe, della scuola, per materia, per provenienza geografica, per sesso, le assenze, le note, i ritardi, ancora per materia e per sesso. Per appartenenza religiosa e situazione sanitaria in teoria no, perché son dati sensibili. Ma il resto sì.

Fin qui siamo (tutti) contenti. Si chiama efficienza ed è proprio da conoscere quello che vorrebbe compilare le pagelle a mano come pochi anni fa ancora capitava. Scrivere i voti uno a uno, e anche le assenze, decine di volte in decine di documenti. No no. Mai più. I voti e le assenze. Il registro elettronico permette di vedere online i voti e le assenze. I genitori dei ragazzi accedono con password e sanno in diretta, in tempo reale, se il figlio è a scuola o no, quale voto ha preso, in quale materia, la media, le note disciplinari, gli esiti intermedi e finali. Tutto tutto. Quel che altrimenti o comunque avrebbero saputo andando a colloquio con i docenti. Lo sanno da casa. Dall’ufficio. Da smartphone.

Dove il registro elettronico c’è da un po’, capita che i genitori non si facciano più vedere ai colloqui con i docenti o alle riunioni della Consulta, basta il voto letto sul video, la media la sanno fare da sé. Come se la valutazione fosse cosa di numeri: niente storia di una conquista da raccontare e condividere, niente alleanza educativa da concordare. La scuola in numeri: quattro-cinque-sei. Oppure i genitori a scuola ci vanno, ma vanno a fine quadrimestre e a fine anno, a contestare il voto in pagella, perché non rispetta la media dei voti monitorata per mesi online. Come se il processo di apprendimento e crescita potesse diventare un numero appunto.

Con bel margine di paradosso, in anni in cui la crisi di partecipazione investe la scuola come tutta la realtà sociale e in cui nascono progetti per riportare i genitori a sentire la scuola realtà propria, a sentire che il “noi” della scuola comprende tutti, noi e loro. Questa iperconnessione sembra ratificare che quel che resta sono i rapporti immateriali. Una spiritualizzazione tecnologica. Fede in una tecnologia che sostituisce la relazione con la connessione. Sicuri che questo sia bene?

È possibile che senza ben pensarci si stia avvalorando un vuoto tremendo. Vuoto di parole dette, di fiducia conquistata. Di fiducia. Non solo fra scuola e famiglie, ma forse e di più fra genitori e figli. Anche se il figlio non parla di scuola, con il registro elettronico il genitore comunque “sa” quel che conta. Il voto. L’assenza. Il marinare la lezione. Subito. L’istante che ci domina. Non c’è per il ragazzo quel tempo sospeso tra ciò che capita e il momento in cui se ne deve o può parlare. Il tempo di pensare, il dispiacere per il voto preso, il proposito di rimediare, il dire sì, è un brutto voto, ma con la promessa già pronta: sto studiando, domani mi faccio interrogare. O sperare che l’impulso di una mattina in fuga da scuola non sia scoperto. Capire da sé che non va bene. Poter ricominciare da un voto non scoperto e riparato, da un bigiare di cui ci si dispiace da soli. Come non c’è per i genitori il tempo per dedicare attenzione a quel che capita, interpretare i segnali, le parole non dette, aspettare quelle che possono arrivare se si lascia il tempo, appunto, e decidere che va bene, stavolta passa, perché il figlio ha capito, e poi vediamo.

Sapere tutto subito placa l’ansia ma non sostituisce la fiducia. Codifica un terreno di ambigua trasparenza. In cui abita anche lo studente che infrange le regole. Uno studente che manometteva o bruciava il registro di classe cartaceo era limpidamente un mascalzone. Uno che viola il registro elettronico è in una confusa posizione di genialità male utilizzata. La notizia recente è che uno di questi studenti nello stesso giorno ha ricevuto, per il suo gesto di hackeraggio scolastico, dalla scuola una sanzione e da un’azienda informatica un’offerta di lavoro.

In una scuola che ha soprattutto bisogno di alleanze concretissime di idee, persone e risorse, il registro elettronico può diventare un abbaglio che ci permette ancora una volta di non vedere quel che capita. Una fondamentale vita di relazioni che si perde. Chi lavora a scuola conosce l’importanza di guardare dritto dritto lo studente, a me gli occhi, nel momento in cui si scopre la firma falsa sull’assenza. Il decidere se dirlo o non dirlo al genitore o al ragazzo stesso, se far capire che si è capito, con lo sguardo che parla al posto delle parole, e basta quello, per sempre.

Più avanza il possibile della tecnologia, più bisogna custodire la materialità delle relazioni. La relazione educativa è incontro. Incontrarsi è un argine all’idea che tutto possa esaurirsi nella virtualità di un rapporto online. Forse è di moda lasciarsi con un sms, a volte anche senza nemmeno quello. Di certo sarebbe indecente bocciare un ragazzo attraverso una comunicazione via web.

La smaterializzazione (orrenda parola, vorrà dire qualcosa il fatto che sia così brutta la parola? Le parole contano, eccome) della scuola può andar bene per l’efficientamento (e qui il lessico vira verso l’horror, ma sta scritto proprio così) delle carte e procedure, certo non per i rapporti, che hanno bisogno del corpo. Gli occhi che scappano, le mani che da adolescenti non si sa dove mettere, la voce che dice la verità, le parole che spiegano, tante parole che spiegano come la fiducia è qualcosa che si costruisce fra persone che si incontrano e parlano, non su un computer che ci denuncia.

Su La Repubblica, 2 gennaio 2013.

ciao maestro

Qui si deve proprio dire che tutto si tiene. E parlare di donne e scuola ci costringe a parlare del nostro mondo. Di qual è l’immagine sociale degli insegnanti. Di quanta importanza è attribuita alla scuola, alla cultura, alla formazione. Di quale prestigio è associato all’insegnamento. Di quanto c’entrano le pari opportunità e l’equità. E infine, dell’ effetto che fa, sulla scuola e sugli studenti. E quindi sulla società.

L’insegnamento è una professione di donne (88% del totale, è l’ultimo dato messo a disposizione dal ministero). Quasi esclusivamente di donne nelle scuole d’ infanzia e del primo ciclo. Appena un po’ meno alle superiori. Il dato è vero per la totalità dei paesi europei, con l’ eccezione della Turchia e in questo caso cercare le ragioni porterebbe lontano. Ma in Italia il divario fra docenti uomini e docenti donne è un abisso e dal momento che da noi la disoccupazione è in prevalenza donna – siamo il paese dell’ Unione europea con la percentuale più bassa di occupazione femminile – ci si può certo fare qualche domanda. Che cosa racconta della nostra società il fatto che l’ insegnamento sia una professione soprattutto di donne? Che l’ insegnante non è considerato socialmente, ad esempio. E dire dove stia la causa e dove l’ effetto è un altro bel tema da svolgere. Ma è un luogo comune degli studi sull’argomento il riconoscere che la figura dell’ insegnante non si accompagna a prestigio e potere.

Eppure dovrebbe, a pensarci. Un tempo, la letteratura ce lo ricorda, capitava. Non il potere di inculcare principi e conculcare coscienze, come è stato detto in tempi anche troppo vicini, ma il potere di coltivare il sapere critico, di far innamorare della libertà, di dare gli strumenti per difenderla, di perseguire l’ equità. È poco? No, ma non è quello che conta nell’ immaginario sociale abbagliato da decenni di potere arrogante, ostentato, impunito. Perché in Italia laddove c’ è potere nel senso di visibilità, denaro, prestigio, ci sono uomini. Anche nella scuola.

Il rapporto fra maschie femmine inverte il segno se si guarda alle funzioni direttive, fino all’ università. Malgrado le donne siano il 58% dei laureati, le ricercatrici universitarie sono il 40%, le docenti associate il 32% e le ordinarie il 14%. Le donne rettore sono due (dati del “Rapporto ombra 2012” del Cedaw, Convenzione dell’ Onu per l’ eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne). La grande presenza delle donne a scuola racconta poi che l’ insegnamento è da noi visto in continuità con il lavoro di “cura”, che lo stereotipo di genere lascia ancora alla donna. Anche se poi alla scuola si chiede di preparare alla “società della conoscenza”, e la vastità dell’ espressione viene declinata soprattutto in termini di misurazione degli apprendimenti, standard in uscita, accesso all’ eccellenza. E ancora la scuola delle donne racconta perché è possibile pagare così poco gli insegnanti. I lavori a prevalenza femminile sono pagati meno di quelli in cui i maschi sono ben rappresentati. Perché sono percepiti meno importanti, gregari, meno qualificanti. Stereotipi fortissimi in Italia. È vero che condividiamo il fenomeno con l’ Europa, con una differenza sostanziale però: altrove i governi si preoccupano e mettono in atto programmi per migliorare l’ equilibrio di genere fra insegnanti, da noi no.

I rapporti Eurydice, la Rete di informazione sull’istruzione in Europa, raccolgono regolarmente queste iniziative che riguardano Irlanda, Olanda, Regno Unito, Norvegia, Repubblica Ceca. Noi no. E ci sono anche paesi che hanno progetti precisi per attirare più donne verso le posizioni direttive nell’ istruzione. Noi no. L’ attuale situazione ci dice che sarà difficile un cambiamento in tempi brevi, perché i precari della scuola sono soprattutto donne, perché nel momento in cui un ragazzo sceglie il precorso formativo spesso ha davanti a sé un modello cui ispirarsi e non è facile avere incontrato modelli di insegnanti maschi, perché la scuola non offre alcun tipo di carriera professionale né interna né verso l’ esterno, perché l’ insegnante è stato negli ultimi decenni destinatario di ogni tipo di accusa: fannullone, assenteista, manipolatore delle coscienze. Il tutto, caso praticamente unico al mondo, alimentato dall’amministrazione che lo aveva assunto e che avrebbe dovuto sostenerne il lavoro per il bene di tutti.

Ci si può chiedere se sia così importante avere una presenza equilibrata di uomini e donne a scuola. Certo che sì. Semplicemente perché, scrive un rapporto Eurydice, “gli insegnanti hanno un ruolo cruciale nella comprensione dei ruoli di genere da parte dei giovani e anche la comprensione del loro stesso genere ha molta influenza e può contribuire o a mantenere o a rompere gli stereotipi di genere nella scuola”. Semplicemente perché è bene che i ragazzi vedano uomini e donne collaborare fra loro e per la loro formazione. Come sarebbe bene che accadesse nella società tutta. E per questo ancora più importante è che il tema del genere sia presente nella formazione iniziale degli insegnanti e nella formazione continua dei docenti. Così non capiterebbe più di vedere, l’ ultimo giorno di scuola, in una primaria, i regali di una piccola lotteria contraddistinti da post-it rosa o azzurri e, soprattutto, di scoprire che i regali delle bambine sono bambole-spazzole-diari-col-bordo-rosa-bomboniere (!) e quelli dei bambini sono libri-lego-costruzioni. Capitato e visto. Con corredo di proteste (quando gli studenti ci insegnano!) delle bambine che volevano i regali dei maschi (non il contrario).

Anche se, andando a leggere quale effetto abbia avuto l’ essere l’ insegnamento un lavoro di donna in questi anni di stralunate riforme e controriforme, verrebbe da osservare che forse per la scuola è stata una fortuna, perché, e questo è uno stereotipo pure, ma forse no, le donne sono piuttosto attrezzate a resistere alle bufere e nell’ emergenza fanno quel che devono, anche più di quel che possono. E se la scuola primaria, ad esempio, che era per qualità fra le prime dei paesi misurati dalle indagini Ocse-Pisa, non è sprofondata insieme alla sua riforma, lo si deve alla capacità delle maestre (e dell’uno virgola per cento di maestri) di far più del richiesto, di inventarsi strategie per far fronte a classi sempre più numerose e sempre più multietniche e sempre più problematiche.

Ma così non va bene, evidentemente. Né per le donne, che rischiano di alimentare per necessità lo stereotipo di un missionarismo legato al genere, né per la professione, che deve restare professione appunto. Né per gli studenti, che a scuola potrebbero percepire tutto l’ impegno della società, maschi e femmine, per la loro educazione e invece son costretti a raccogliere l’affanno volonteroso di un inseguire emergenze, di adattarsi a riforme non condivise, di un colpevole disinteresse dello stato verso il loro futuro. E però qui la stessa cosa è raccontata dalla simbolica degli spazi: le scuole sono soprattutto aulifici, contenitori di studenti buoni e attenti, luoghi magari storici, però inadatti alle splendide energie di adolescenti in vigorosa esplorazione del sapere e del mondo. Ecco perché tutto si tiene.

Detto che un maggiore equilibrio fra insegnanti uomini e insegnanti donne gioverebbe, resta che il problema è un aspetto di quello generale di una distribuzione del potere in ogni campo fortemente legata al genere e davvero, visti i risultati, c’ è da preoccuparsi molto di più per il concentrato di uomini di potere in politica, nell’editoria, nell’industria, nell’economia, nella finanza. La scuola che funziona c’è eccome. E per ora, senza averlo cercato, le donne ne portano spesso il merito.

Su La Repubblica, 4 settembre 2012

valutare a scuola

E poi bisogna anche parlare dei voti. Perché se i test non hanno vita felice qui da noi in Italia, e il perché lo ha raccontato per bene Stefano Bartezzaghi domenica, poi però tutti i test, proprio tutti, diventano numeri che danno idoneità, promozioni, accessi all’università o a selezioni. Sì e no ai nostri progetti di vita. Un test è un bivio: di qua o di là. Per questo non può essere sbagliato, sciatto, ambiguo. E anche quando è perfetto, è solo un puntino nello scorrere dei giorni e delle esperienze di una persona. Niente di più. Dovrebbe. Soprattutto a scuola, dove i test dilagano, importati all’ingrosso dal mito dell’oggettività del valutare. E diventano voto.

E allora parliamo del voto. E quindi della valutazione, della scuola che vogliamo, del mondo in cui viviamo. Tutto si tiene quando si parla di scuola e di ragazzi. Dopo decenni ormai di letteratura sulla valutazione, il voto incendia sempre ancora le discussioni più scomposte. È così sovraccarico d’altro che quando è negativo per legge sparisce dai tabelloni finali, quasi che l’insufficienza a scuola sia stigma di insufficienza personale e umana di fronte all’universo mondo. E a volte, lo sappiamo, capita qualcosa che non può nemmeno essere nominato. Eppure i giornali devono scriverne. C’è chi, giovanissimo, prende un brutto, bruttissimo (troppo brutto?) voto a scuola e poi ci lascia. Lascia la sua vita.

Sotto quale cielo può capitare questo? Se la vita è altrove – sta scritto nei diari di scuola pieni di tutto: foto, ritagli, lettere, poesie, canzoni, fiocchi di regali, che sporgono colorati, di tutto tranne cose di scuola – allora perché il voto cattivo può per un momento magari, solo un momento, diventare il mondo che si rovescia addosso?

Dei ragazzi spesso non sappiamo nulla. Ostentano quel che non sono per nascondere meglio quel che vorrebbero essere. Dopo la tragedia si dice: ma come si fa? La scuola non può farsi carico di tutto. Ed è così.

Ma valutare è uno dei suoi compiti, serve a capire se il passo di chi insegna è giusto, se chi apprende lo sta facendo, a certificare al mondo che un percorso è compiuto davvero, che ci si può fidare, che quel diploma racconta ciò che i ragazzi sanno e sanno fare e che anche grazie a questo sapranno diventare quel che desiderano.

A scuola la valutazione incrocia tutto intero il tempo in cui i ragazzi esplorano ancora intatte tutte le loro possibilità, cercano conferme del loro valore, hanno paura di non trovarle. È la formazione del sé. Un momento benedetto. In cui ci vuole tempo, spazio per l’errore, e per rimediare all’errore. La valutazione degli apprendimenti, e oggi delle competenze, accompagna questo periodo e pur in una cornice che deve essere definita, chiara, rigorosa e comune, la scuola deve sempre sapere che la vita sorprende, che tutto può accadere, nel bene e nel male. Il voto è solo lo strumento che ci siamo dati per comunicare fra professori, ragazzi, famiglie, mondo. Non è nemmeno così necessario, almeno all’inizio. La scuola trentina prevede che nei primi quattro anni delle elementari i bambini siano valutati per aree di apprendimento.

Non ci sono voti per le singole discipline. A dire che il processo che porta un bambino ad avere gli strumenti per valorizzare le proprie attitudini è meravigliosamente unitario. E non ci sono i voti fino alla terza media. Ci sono giudizi. Articolati ma non bizantini, poche voci che dicono come e cosa è accaduto. Vien così meno la tentazione di quella contabilità lineare della valutazione che i ragazzi delle superiori consegnano a volte all’ultima pagina (il valore simbolico degli spazi!) dei loro diari: cinque più, sei e mezzo, quattro, sei = 5,44. Sarà sufficiente o no? Versione artigianale di certi fogli di excel che invece capita siano i professori a compilare.

Ma lo sappiamo che questo non è valutare. Nella didattica modulare se la verifica mostra che i contenuti del modulo sono stati fatti propri, il voto va a sostituire quello eventualmente negativo nella verifica precedente. Il modulo è appreso. Il brutto voto è rimediato. La recente riflessione sulla valutazione autentica chiede verifiche che mettono in gioco la scuola e la vita, e portano lo studente a misurarsi con quesiti di realtà.

Lo sappiamo ormai che la valutazione è un processo di osservazione, interazione, che chiede tempo e trasparenza e tanta tanta fiducia. Reciproca. Lo studente che si fida, perché ha visto già molte volte che tutto è equo e chiaro: richieste, criteri, modalità di recupero. L’insegnante che si fida dello studente, gli dà credito: di poter migliorare, poco a poco, perché la fiducia dell’altro attiva la fiducia in se stessi. Ai ragazzi la scuola importa, eccome. Nelle aule costruiscono la rete di fiducia in se stessi e negli altri che permetterà loro di resistere anche alle sconfitte.

Certo, poi alla fine c’è un voto. Una sintesi, un punto in cui si concentra tutto il processo. E allora, alla fine, si può parlare del voto. Al riparo dalla carica emotiva perché il voto è anche potere: quanta letteratura e quanta esperienza ce lo hanno raccontato? Al riparo dalla carica ideologica perché la scuola è oggi luogo di battaglia politica e nella furia del dibattere si vorrebbe far credere che i voti bassi aiutino la qualità e il merito.

Non è così. Il Trentino registra l’eccellenza nei test Invalsi e nelle indagini internazionali Ocse-Pisa. Eppure il Regolamento di valutazione della scuola trentina non permette voti sotto il 4 nelle pagelle delle superiori. Dietro c’è una riflessione pedagogica precisa: allo studente si dà un messaggio chiaro, sufficiente a bocciarlo se serve, niente di più.

E infatti poi il Regolamento impedisce quella finzione iniqua che è data dai sei necessari a essere ammessi all’esame di stato come invece capita nel resto dell’Italia. I 4 restano e fanno media vera. Trasparenza, anche qui. Perché la valutazione ha assoluto bisogno di avvenire in un contesto di giustizia. E allora i voti minuscoli, tre due uno (zero meno, in una fulminante battuta dei Peanuts) non sono necessari, non fanno bene e possono invece fare male. Inutile lasciarli visto che l’autonomia delle scuole permette altre strade condivise.

Questa è la scuola. Poi c’è il mondo. Se noi consegniamo ai ragazzi un mondo in cui la violenza delle parole, dei rapporti, dell’ingiustizia sociale è normale, accettata e inevitabile, in cui nei film, nei libri, nella realtà la violenza fisica è una strada possibile, quasi ordinaria di risposta all’offesa vera o presunta, o solo equivocata, allora certo un ragazzo può pensare che anche la frustrazione di un voto negativo può essere risolta con la violenza. Contro di sé. Anche il mondo c’entra, eccome. E così certamente no, la vita dei ragazzi non è mai altrove.

La Repubblica, 14 agosto 2012