così la scuola mette in rete la convivenza

Difficile trovare qualcosa di intrinsecamente sconveniente nell’irruzione dei social a scuola. Nei social si entra (molto moltissimo) ed esce (pochissimo) con precisi gesti volontari. Si interagisce per (libera) scelta. Si scrive in prima persona, nessuno prende il nostro posto. Le relazioni al tempo dei social non sembrano pretendere regole speciali rispetto alle altre forme di relazione: non offendere, non seminar menzogne, rispetta i ruoli, di’ la verità o anche nulla se non la vuoi o puoi dire. Silenzio, se non hai di che parlare.

Ci sono insegnanti che hanno felicemente piegato alla didattica anche WhatsApp, lo strumento nato per chattare più amato dai giovanissimi. Hanno creato gruppi classe con cui scambiano chiarimenti, inviano risultati, variazioni di orario e immagini. 
Gli studenti che creano i gruppi classe o di istituto in fb fanno qualcosa di molto più sensato e meno pericoloso rispetto al viaggiare casuale e virtuale nella rete perché in questo caso gli amici di fb sono i compagni di classe e di scuola, il rapporto c’è dentro e fuori la rete.

Certo son mezzi che pretendono un aggiornamento di attenzione. Tendono, questo sì intrinsecamente, a scavallare i confini. Tutti, prof e studenti, “amici”. Ma anche no, se qualcuno il confine lo tiene. E in un rapporto educativo è l’adulto che lo deve fare. Adulto professore e adulto genitore. Perché poi ci sono i genitori “amici” nei social, spesso più affatturati dei loro figli adolescenti, e allora la fatica di tenere il confine è davvero improba.

E tendono anche, questi social, a farsi percepire come planetaria zona assurdamente franca rispetto alla buona educazione e quando i gruppi dei social sono chiusi, può capitare, alla fine di un rosario di condivisioni, di scoprire la nostra dignità disarcionata da una raffica di insulti senza qualità e verità, scatenati da una piccola coorte di adolescenti senza contenimento o dal più affollato esercito dei loro genitori.

“La cortesia è la capacità di far star bene gli altri”, scriveva Giovanna Axia nel suo rigoroso e scientificamente incantevole “Elogio della cortesia”. La convivenza è la bella vocazione della scuola. A quel formidabile moltiplicatore di narcisismo che è il mondo dei social, gli altri interessano davvero?

Su La Repubblica, 18 febbraio 2015

anoressia e carcere

Il problema vero sarà trovare qualcosa intorno a noi che NON rientri nel reato di istigazione all’anoressia. In senso neanche troppo lato e sfumato c’è un vero corteggiamento culturale intorno al corpo leggero. Coinvolge il cibo, che più è “senza” (zuccheri,calorie, grassi) più è “sano” (e più è costoso, ma questo è altra questione). Imperversa sui vestiti, vecchia e attuale questione delle modelle, sia quelle vere delle sfilate, che a dispetto dei codici etici ritualmente proclamati dagli stilisti continuano a misurare le passerelle nella loro taglia quaranta scarsa, sia quelle di eco plastica che si offrono filomorfe dalle vetrine. E il corpo leggero leggerissimo è anche quello delle piccole protagoniste dei fumetti per bambini, dei cartoni, dei videogiochi.
Gli insegnanti fanno corsi per poter riconoscere subito i sintomi dei disturbi alimentari. Hanno imparato. Il panino che qualcuno da casa ha infilato in cartella e trovato poi nel cestino dell’aula e scatta l’attenzione. E conoscono questi siti dai nomi un po’ carbonari in cui ragazzi e ragazze che hanno imparato la dolorosa dissennata disciplina del corpo che si assottiglia e la insegnano ad altri. Comunità di pratica impensabili. Gruppi di mutua dissoluzione che sono sicuramente “male”, ma è un male che nasce dall’essere malati, i disturbi alimentari sono malattie, ed è difficile pensare di curare una malattia con una pena. E poi questi siti bisogna cercarli, non ci vengono addosso come la pubblicità. E si può anche pensare che chi li cerca in qualche modo un poco il problema lo senta già. E proprio per questo allora, vien da dire, sarebbe bene che chi li cerca non trovasse chi gli rende facile scivolare giù in un’alleanza dannata. Ma allora ci si può domandare se quel confuso percorso che porta a sentirsi sporco, brutto, pesante e cattivo e a voler diventare angeli per sottrazione del corpo nostro può davvero essere arrestato o accelerato da un elenco triste di consigli “pratici”. Forse sì, esistono la seduzione, l’influenza del gruppo, l’imitazione. Forse no, la distruzione di sé è qualcosa di troppo profondo e segreto. Ma in fondo in questi gruppi c’è una vera istigazione al suicidio, c’è chi di anoressia muore.
E si potrebbe continuare e ancora continuare ad allineare ragioni e obiezioni intorno a un problema che come altri della nostra modernità non si lascia afferrare per un capo solo, quello del reato, ma chiede un allargar lo sguardo alla nostra cultura.
Difficile dire che cosa potrebbe fare una legge per arginare il male impressionante, per numeri e conseguenze, dell’anoressia. Non si può di sicuro mettere in carcere il pubblicitario che sceglie una modella a una dimensione per il suo prodotto, ma ancora meno lo si può fare con una ragazza o un ragazzo malati che dispensano consigli malati.
Ma è un gran bene la riflessione nata intorno a questa proposta di legge, perché i disturbi alimentari rappresentano un problema paradossale del nostro mondo occidentale che ha sconfitto la fame e che idolatra l’età giovane. Eppure.
Su La Repubblica, 7 agosto 2014

maestri con la valigia

IL PUNTO esatto della questione è che in questo momento non c’è un modo semplice per uscirne. La realtà dei docenti precari nella scuola viene da un’accozzaglia di errori perpetrati con scientifica determinazione per ignoranza, piaggeria, leggerezza, calcolo politico, a seconda delle persone e delle epoche di cui si parla. In disordine sparso: c’è chi, politici si intende, ha promesso e permesso troppo, troppi corsi di laurea univocamente orientati all’insegnamento ad esempio, quando ormai era chiaro che non ci sarebbe stato spazio nella scuola per decenni; c’è chi, e son sindacati, a volte di consistenza quasi omeopatica, ha trovato la sua unica ragione di esistere nel patrocinare i ricorsi degli esclusi, dai concorsi o dalle graduatorie; c’è chi, e stavolta son ministri, non ha fatto concorsi per vent’anni, permettendo che il precariato della scuola diventasse una  variante non così lontana dal ruolo; c’è chi poi, ancora ministri, ha scagliato di volta in volta soluzioni ex nihilo, sentendosi ciascuno come Dio nel primo giorno della creazione. Come se le professionalità comunque accumulate attraverso il precariato fossero nulla per la scuola.

E allora nuove selezioni, nuovi concorsi e concorsoni, che non tenevano conto dei precedenti e alimentavano speranza nuova sotto il segno del “luogo ai giovani” e insieme rinnovata disperazione di chi dopo SSIS e corsi abilitanti e decenni di insegnamento vedeva tutto annullato. E allora nuovi ricorsi. Precari antichi contro precari recenti.

Il risultato è devastantee non si può lasciar correre perché si parla di scuola, il nostro bene comune. Ci sono i ragazzi, e il loro diritto a una continuità di insegnamento che è anche continuità di metodo, di progetto educativo, di rapporto: tempo dato alla propria crescita, che può essere riconosciuta se c’è qualcuno che la accompagna nella sua durata. E ci sono questi docenti precari, uno su sette, il 15 per cento del totale, che intanto insegnano, avviano progetti, fanno i vicepresidi, lavorano all’Università anche, ma sempre sospesi, senza poter vedere il risultato del loro operare, ogni anno spostati qua e là, e molti anche no, oggi lasciati fuori dal taglio delle classi, che vuol dire classi oversize, dove è irreale poter creare quel luogo delle opportunità per tutti che è la vocazione civile e sociale della scuola.

Qui è davvero impensabile applicare decisioni massimaliste di qualsiasi segno. Azzerare tutto è impossibile e non è sensato. È un groviglio che richiede una grande sapienza politica L’esercizio dell’arte politica e nobile della mediazione. Si deve mediare fra la necessità assoluta di non dissipare competenze già acquisite, presenti e disponibili, e la necessità di assicurare una buona scuola agli studenti e ancora la necessità di scaricare la scuola dalle tensioni interne, la guerra dei precari, appunto. E dire la verità: che per tutti non c’è posto, ma che si fa il possibile, insieme, per evitare ingiustizie.

E poi per il futuro, un reclutamento commisurato al bisogno reale e capace di selezionare sulle competenze didattiche e non su discutibili abilità nel superare… i test di selezione. Ora però vuole un’alleanza con i docenti e i sindacati, inventare percorsi leggeri e nuovi che tengano ben ferma soprattutto la necessità di insegnare bene. Il Trentino, d’accordo con i sindacati, ha ad esempio la figura dei supplenti “triennalisti”. Il supplente firma un contratto che lo impegna a stare per tre anni nella scuola che sceglie. I ragazzi hanno la continuità didattica, il docente pure, in cambio perde il diritto ad avvicinarsi a casa, qualora dovesse liberarsi una scuola a lui più comoda. Una piccola soluzione al turbine di rotazioni annuali dei docenti. E poi si deve arrivare a una modalità concordata di utilizzo delle graduatorie esistenti per, banalmente, risolvere le situazioni più vistose e ingiuste. Recuperare almeno nella scuola la concertazione, rinunciando al tutti contro tutti.

E ancora, reinvestire nella scuola almeno nel tornare a un numero

decente di studenti per classe. Se di risorse si parla, e non ci sono si dice, allora da un lato bisogna ripeterci che rinunciare alla scuola vuol dire rinunciare al futuro, e dall’altro bisogna ricordarci che ogni studente costa allo Stato 8.000 euro l’anno (fonte Anp, Associazione nazionale presidi) e che il tasso di dispersione annua è in Italia intorno al 10 per cento. Questi sono studenti che poi ripeteranno. Vien da pensare che il risparmio immediato su classi o organico sia probabilmente un pessimo affare anche sul piano economico, oltre che sicuramente un dissennato atto di incoscienza civica e di ingiustizia verso i ragazzi più deboli, che sono spesso anche i più poveri sul piano culturale e sociale.

Su La Repubblica, 6 gennaio 2014

non sedurre ma servire

Capita che un docente sia accusato di avere avuto rapporti di sesso, anche violento, con sue studentesse, anche minorenni. Più d’ una. Capita che lo ammetta. Più tardi la giustizia dirà tutto quel che può, dopo un processo che deve essere giusto.E intanto però capita che compagni e compagne di classe e di scuola difendano il professore. Bravo dicono, appassionato, innamorato della materia. Innamorato? E allora ci si chiede qualcosa. Nelle aule come nella vita può capitare che le emozioni diventino bufera che travolge. Nella scuola di più, non solo perché ci si passa un mare di tempo e i rapporti sono stretti stretti e le interazioni necessarie. Ma anche perché le aule sono affollate di portatori privilegiati dell’ emozione più potente in noi, il desiderio.

Da giovani il desiderio è moltitudine. Essere visti, riconosciuti come persona che vale, amati. Esistere. Ed è bene che le emozioni attraversino le ore di lezione. Non si trova teoria pedagogica a sostenere che l’ apprendimento e il rapporto educativo funzionino meglio in un contesto di gelo relazionale. Gli strumenti critici e le emozioni ci fanno sapere il nostro valore. E insieme viene la libertà. Di non farsi aggirare, di difenderci da soprusi sociali e personali, stereotipi, trappole che ci minacciano. Scuola sta con libertà, se il patto con l’ adulto funziona. Davvero però il rapporto può tracimare in ogni momento, e la letteratura è piena di queste storie con finale a volte chissà letterariamente felice, più spesso incerto. La cronaca invece conosce soprattutto finali drammatici. Il patto stabilisce che nel contesto d’ aula il confine dei ruoli è tenuto dall’ adulto, che conosce, e riconosce, anche in se stesso, il potere delle emozioni, e in virtù del suo essere adulto le sa governare, anche in sé stesso. E gioca d’ anticipo ogni momento, non comprime la distanza con lo studente, che non è distanza di valore, ma di ruolo e di maturità. Non si confonde con lui. Ci sono i confini. Colleghi insegnanti hanno deciso che un confine è non essere amici sui social network finoa che rimane il rapporto di scuola. Niente telefono diretto, niente sms, niente post o tweet. Altri stanno anche su questi confini. Ma conoscono l’ arte della misura che non ammicca.

E poi c’ è il potere. Sia pure piccolo, corroso da una considerazione sociale in caduta libera e più ancora da una carsica crisi di indotta disistima, in aula il docente porta una forma di potere, quello di riconoscere lo studente oppure no appunto, ed è il potere più forte, aiutato dal potere del voto, la promozione. Credito fra gli amici e in famiglia. L’ unico potere d’ aula buono è servizio alle persone che ci sono affidate. Lo è per legge e per deontologia professionale. E invece no. Può capitare che non sia così è diventi mezzo di seduzione, sopruso. Più facile se l’ insegnante è bravo. Perché il seduttore ha sempre del buono in sé, altrimenti non sedurrebbe nessuno. Ha il buono di una passione. E quello del desiderio, come i ragazzi. Non coltivato in un sé adulto e appagato ma un desiderio malato di vita. Di tutte le vite. Bisogno di esistere attraverso le vite d’ altri, possedute fino all’ estremo confine. Queste cose non capitano nel deserto. C’ è sempre un mondo di adulti “sani”, ciechi sordi e muti, intorno. Non tutti colpevoli d’ omissione, no. Perché un genitore che trova un professore pieno di entusiasmo, generoso del suo tempo e del suo sapere, amato dai ragazzi, che vanno a scuola volentieri e sono felici, è contento, semplicemente. Certo che deve essere attento, e magari lo è, eppure non vede. Perché il seduttore seduce a trecentosessanta gradi, i genitori anche, e i ragazzi hanno il diritto di non capire la tempesta che li abita, e sono sgomenti e contenti nello stesso momento: un’ attenzione malataè pur sempre un’ attenzione, un insegnante sedotto è un frammento di onnipotenza nelle loro mani giovani. In un gioco di rovesciamenti che la psicoanalisi sa chiamare per nome e raccontare.

Forse è per questo che i ragazzi con ostinazione difendono il docente che esce dal suo ruolo fino all’ offesa dei loro corpi e della loro libertà. Perché difendono il loro essere esistiti, assoluti, unici e importanti, per un attimo a volte lungo, perché condannare il seduttore vuol dire riconoscere che l’ ingresso travolgente nell’ età adulta, vissuto come un posto ricevuto e riconosciuto, non c’ è stato. Vuol dire precipitare di nuovo nella paura di non valere. Però all’ appello delle colpe qualcuno può ben essere chiamato. Tutti quelli che per convenienza, piaggeria, quieto vivere, ammiccante connivenza, hanno taciuto. E quelli che sulla scuola non sorvegliano. Che affidano un compito straordinario a persone la cui inadeguatezza, o malattia, colpevolmente non sanno riconoscere.

Su La Repubblica, 3 settembre 2013