quel salto tra paura e fiducia nel futuro

Il liceo è per sua natura una scuola che investe nel futuro. Il titolo di studio non è immediatamente “professionalizzante”, come si dice. Dopo bisogna pensare all’università. Per cui il dato del Miur che registra la crescita di iscrizioni nei licei può restituirci uno sguardo di fiducia nel mondo che verrà, ed è una buona cosa.

Potrebbe, però, raccontare anche una paura. La paura di un mondo in cui nessun lavoro oggi immaginabile è ragionevolmente abbastanza sicuro e allora conviene scommettere (impegnare le proprie energie giovani) in una preparazione larga e flessibile, un liceo che lasci aperte tante possibilità, dopo. Anche questa è una buona cosa, se è vera.

Chi lavora nella scuola però sa che il liceo è un poco anche un marchio. Una firma. Le scuole registrano un pellegrinaggio dallo scientifico tradizionale, o anche dal classico, verso lo scientifico delle scienze applicate, che è il liceo “senza il latino”, come si dice in modo un po’ grossolano. E allora l’aumento dei licei light (soprattutto delle scienze applicate e sportivo, +0,4% insieme) potrebbe essere uno degli indicatori di quella deriva dell’apparire che affligge il nostro tempo. Mio figlio deve fare un liceo purchessia. E questa non sarebbe una buona cosa.

Sempre restando bene aderenti ai dati del Miur e cercando di interpretarli, un poco preoccupa il fatto che i licei siano scelti dalle regioni in cui di più batte la crisi del lavoro mentre Veneto, Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia sono le regioni in cui i ragazzi ancora scelgono gli istituti tecnici. In queste regioni i tecnici offrono ancora una buona possibilità di impiego dopo il diploma, e sceglierli vuol dire tenere aperte entrambe le strade dopo la maturità: l’università e la professione.

Il calo dei professionali invece è un vero disastro. È il risultato di una scelta politica dissennata fatta quando si è deciso di snaturarli, togliendo quel rassicurante step intermedio che era la qualifica professionale dopo il terzo anno, rassicurante per chi temeva di non poter fare un tecnico di cinque anni e insieme trampolino per chi scopriva che invece ogni passaggio di scuola è una nuova possibilità e che si può essere migliori di come ci si immaginava.

Chi ci ha lavorato sa che gli istituti professionali sono stati il laboratorio di tante buonissime pratiche poi diventate riforme. E ascensore sociale e ammortizzatore sociale e molto altro.

Il liceo non può essere né un bene rifugio né uno status symbol. Deve essere la buona scelta di chi il greco, il latino, la matematica, le scienze li sceglie per passione.

Da La Repubblica, 8 febbraio 2017

chi ha paura del mondo cattivo

CHI HA paura del mondo cattivo? Il pomeriggio del secondo giorno di scuola il genitore di un bambino di prima elementare telefona al preside e gli dice: «Oggi sul pulmino un compagno di mio figlio lo ha spinto. Per questa volta le telefono, la prossima volta le mando gli avvocati». Alla fine di un Consiglio di istituto dedicato ad approvare il piano di sicurezza della scuola il preside ringrazia e saluta una rappresentante dei genitori la cui figlia di quinta superiore sta partendo per un viaggio di istruzione a Berlino: «Ormai sua figlia e i suoi compagni sono maggiorenni e un po’ di responsabilità le condividiamo con loro», dice. «Eh no!», risponde la signora. «Se capita qualcosa la colpa è vostra».

Scuola a responsabilità illimitata. La preside di Bergamo che chiede ai genitori di venire a prendere i figli adolescenti alla fine delle lezioni solleva un problema verissimo. Dove arriva la culpa in vigilando della scuola? All’aula, ai bagni, sul pulmino, fino a casa, fino a diciotto anni e fino a Berlino. Ci sono sentenze che dicono di sì. Per la legge la scuola deve provvedere alla sorveglianza dei minorenni “fino al subentro reale o potenziale dei genitori”.

Qui c’è un conflitto gigantesco con l’obiettivo primo dell’educazione che è la crescita dell’autonomia personale dei ragazzi ma è talmente cambiata la percezione della sicurezza rispetto a un passato vicino che si vive (ansiosamente) la scissione: i figli tornano di notte a tutte le ore ma li si consegna alla scuola come a una teca iperprotettiva.

Il livello di rischio del mondo esterno è oggettivamente aumentato. Abbiamo accettato città e paesi costruiti per il traffico e il commercio e né bambini né adulti hanno vita facile. Tutti abbiamo paura e i genitori chiedono alla scuola quella sicurezza che sentono impossibile. Ma è un’illusione crudelissima quella che affida la sicurezza al controllo, che si tratti di insegnanti, poliziotti o telecamere.

La vita è altamente intollerabile se non la si vive in una condivisione di fiducia reciproca e di responsabilità. Esiste una responsabilità in educando, che è anche e soprattutto dei genitori, esiste la fiducia di cui tutti, i figli soprattutto ma anche la scuola, hanno bisogno. E insieme esiste il rischio che rimane dopo aver eliminato quello che dipende dalle nostre scelte sociali, amministrative, culturali. Però la vita è altamente intollerabile anche se non la si prende almeno un poco all’ingrosso. Cioè così come sta, con il suo essere tremenda e bellissima, spesso le due cose insieme, a volte in sequenza troppo ravvicinata.

Forse la preoccupazione ci fa sentire genitori migliori. La paura riempie bene la vita, copre i sensi di colpa per il tempo non dedicato, per lo sguardo mancato, per lo sgomento di non saper capire o di non poter proprio capire e la paura è più rassicurante dell’impotenza. Ma la paura non è una fatalità da accettare come la grandine che quando cade cade. È anche il risultato di un mondo al quale abbiamo permesso di essere più pericoloso del necessario.

Chiunque sia stato in visita alle scuole olandesi (e danesi e tedesche) ha visto la mattina arrivare sciami di studenti in bicicletta, colorati nei loro impermeabili, li ha visti riporre scarpe e stivali negli armadietti, fare lezione e ripartire alla fine della giornata di scuola. Possono essere rapiti durante il tragitto. Sì, ma si muovono insieme, il rischio è minore. Possono fare un incidente. Sì, ma il gruppo rende più sicuri e viaggiano sulle ciclabili. Possono ammalarsi per la pioggia. Sì, ma molto molto meno dei nostri figli che passano dal letto all’aula dentro un suv preriscaldato. E poi in questo andare nell’aria del mattino forse sperimentano qualcosa del loro poter essere liberi.

Su La Repubblica.it, 13 gennaio 2016.

se è l’adulto a fare il bullo tra i banchi

DEV’essere chiarissimo che valutare non ha niente a che vedere con il potere, mai. L’esercizio del potere gerarchico è intrinsecamente rischioso perché la prevaricazione e il sopruso sono spesso uno scivolare inconsapevole, favorito dai caratteri in gioco, dalla paura e anche, molto, da quella che con una certa approssimazione si può chiamare «l’aria che tira», cioè quel che viene socialmente considerato accettabile.

Oggi la prevaricazione e l’aggressività verbale stanno dappertutto. C’è un sadismo dei rapporti gerarchici che non viene nemmeno dissimulato. Un dirigente che alla prima riunione con i suoi collaboratori dice «Ricordatevi che potete essere licenziati», un funzionario che dice en passant «Guardi che posso fare una relazione negativa su di lei al nostro capo», non esercitano un potere ma un sopruso.

Intervenire su un comportamento scorretto è altra cosa dal minacciare di farlo. La minaccia dell’esercizio del potere è intrinsecamente abuso perché vuol mettere l’altro nella posizione di soggezione, sottintende un’asimmetria della relazione che non esiste perché l’asimmetria è nella responsabilità, mai nella dignità.

Prevaricazione e minaccia sono le parole del bullismo. Ma il bullismo riguarda per definizione i bambini e i ragazzi e viaggia con un corredo di attenuanti che vengono dall’età, dalla condizione sociale, dal diritto dell’età giovane di sbagliare, di coprire l’incertezza del sé con comportamenti sgangherati che chiedono il contenimento dell’adulto. Sono attenuanti che non esistono quando si parla di adulti e meno che mai se sono adulti di scuola.

Un ispettore ha un potere di supporto, si chiama proprio così. Vuol dire che se un preside o un docente sbaglia gli dice dove ha sbagliato e lo aiuta a rimediare. O è così o la valutazione dei presidi e degli insegnanti diventa ricatto e se il tutto capita sui social, diventa anche gogna pubblica, moltiplicatore di conflittualità. L’arroganza è contagiosa. Il contrario di tutto quel che serve alla scuola.

Dalla Lombardia comunque, e proprio dal mondo della scuola, arriva in questi giorni anche la “Settimana della gentilezza”, che da qualche anno il preside Alberto Ardizzone, dell’istituto comprensivo di Merate, propone come giusto inizio dei giorni di scuola, e tanti istituti aderiscono a questa iniziativa che non ha niente a che vedere con il bon ton ma che lancia ragazzi e professori in attività pubbliche, giochi gentili e gesti di amicizia. Che dire di una settimana (una piccola eternità) della gentilezza istituzionale? Fra generi? Intergenerazionale? Addirittura politica?

Su La Repubblica.it, 27 agosto 2016.

siate liberi

Può capitare di leggere le 587 pagine scritte in caratteri lillipuziani de Il giuoco delle perle di vetro1 a diciannove anni, dopo non aver amato né il didascalico Narciso e Boccadoro né l’ecumenicoSiddharta, infinitamente più accattivanti nel loro offrirsi a una lettura tutto sommato facile, quali che poi siano le profondità che molti ci vedono fra una riga e l’altra.

Ci si arriva magari portandoselo in valigia a un campo di studio organizzato dai gesuiti, fra le montagne dell’Alto Adige a Selva di Val Gardena. Corso di maturità teologica si chiamava, ragazze e ragazzi usciti dalla maturità e immersi in quel momento unico nella vita in cui ogni cosa sembra possibile, squadernata davanti a noi, vertigine di libertà da attraversare.

Non lo si sa in anticipo, ovviamente, e niente di quel che si è letto nelle critiche piene di riferimenti storici e letterari lo fa prevedere, ma capita di trovare nel libro proprio (anche) questo momento unico. Josef Knecht, futuro Maestro del gioco, a ventiquattro anni lascia l’alunnato di Waldzell e comincia gli anni dello studio libero, «i più sereni e felici della sua vita. Sempre infatti è meraviglioso e commuove il desiderio vagante di scoperta e di conquista da parte di un giovane che, libero per la prima volta dalla costrizione scolastica, va incontro agli sterminati orizzonti dello spirito, non ha ancora perduto le illusioni, non dubita né della propria facoltà di dedizione infinita né dell’immensità del mondo spirituale» (111).

Intanto, fuori dalle pagine, in un contesto di montagne incantate ben più vive dell’immobile Castalia di Hesse, s’incontra quel formidabile miscuglio di libertà, quasi anarchia, e obbedienza che è il mondo dei gesuiti.

Niente mai è obbligatorio, ma tutto in qualche modo si ricompone alla fine della giornata. I letti rifatti, le passeggiate godute, gli incontri biblici, filosofici, politici, teologici intensi e frequentati, i tornei organizzati, la preghiera ben costruita. Eppure tutta la libertà possibile viene assecondata. I ribelli restano ribelli, anzi, spesso, lo diventano di più e figli di notai che le volture le hanno succhiate con il latte materno, nati con un futuro disegnato, tornano in pianura e s’iscrivono a matematica come avevano sempre desiderato, e le figlie di commercialisti o di imprenditori con studi e aziende già belle confezionate diventano matricole di filosofia o si prendono l’anno sabbatico nel Sertão.

E portati da un movimento sorprendente si passa dalle pagine alla realtà, da un mondo all’altro, ugualmente suddiviso in province, popolato di maestri, trapuntato di dialoghi spirituali.

Qua e anche là i maestri sono singolari. A Selva c’è un inafferrabile padre Filippo Clerici, il suo sapere spirituale lo regala nelle escursioni, quando insegna che per salire servono un appiglio e un appoggio e bisogna saperlo e sapere quanto e come sono necessari in montagna e nella vita. C’è padre Silvano Fausti in perenne odore di eresia, da lui stesso coltivata come identità necessaria, e questo non preoccupa nessuno, né lui né i padri della sua comunità. A volte eravamo noi ragazzi i più spaventati della libertà che in nome del Vangelo ci veniva improvvisamente restituita tutta intera. Siate liberi davvero. Ma davvero davvero. E a dirlo ogni volta è il padre Giangiacomo Rotelli, con la sua Chiesa come «patria degli uomini liberi».

Dove sta la libertà? si chiede Josef nel corso dello splendido dialogo con il Magister musicae. Nella scelta della libera professione che i «non castalii» possono fare? Un’illusione di libertà, dice il Magister. Perché il medico, il giurista, il tecnico «diventa schiavo di potenze inferiori, viene a dipendere dal successo, dal denaro, dalla sua ambizione, dalla sua sete di gloria, dal compiacimento che trova o non trova presso gli altri» (73). Le parole delle pagine si confondono con i giorni che si vivono.

Certo, qualcosa sarebbe capitato, qualcosa di preciso, che, anche senza volere, avrebbe segnato un confine alle infinite possibilità che ci stavano davanti. Ma doveva essere qualcosa di nostro.

Poi si legge quell’incredibile pagina sull’esser visti e riconosciuti in cui il Magister musicae ripesca Josef dalla sua crisi. Di che cosa ha bisogno una persona se non di essere vista e riconosciuta? La pagina in cui il Magister vede il giovane Josef Knecht è un desiderio realizzato in parola. È la vocazione. Vocazione vuol dire che un altro ci vede, ci riconosce, ci dice vieni con me perché posso aiutarti a essere te. Molti di noi l’hanno incontrata lassù, visti uno per uno.

Poi il campo è finito e tutti si sono dispersi. Ma la percezione che un Divino, immeritato, non conquistato attraverso qualchesia pratica o sacrificio o adesione a un dogma o a una Chiesa, è in noi, in virtù sua e non nostra, questa percezione è diventata compagna dei giorni.

1 Hermann Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, Mondadori, Milano 1979.

Da Il Regno, 15 novembre 2015