perché i giovani con capiscono la sostanza del fascismo

Non c’è scuola italiana che non lo insegni il fascismo. Il problema è farlo percepire come qualcosa di tremendo, reale e attuale. Attuale non perché siamo di fatto già circondati da un nuovo fascismo ma perché il fascismo è una reale possibilità delle società avanzate, una scorciatoia della politica e anche della mente e sta rialzando la testa e glielo lasciamo fare. Fascismo è un’esperienza politica, sociale e umana illiberale e violenta.

Un problema è che per i ragazzi la sostanza illiberale del fascismo è inimmaginabile. Non tanto perché crescono immersi nelle libertà fondamentali dell’individuo e del cittadino: parlano quando vogliono e di quel che vogliono, si spostano dove li porta il desiderio, si ritrovano, si aggregano e disaggregano. Protestano. Ma soprattutto perché si percepiscono illimitati. Questa libertà di espandersi non conosce il limite dato, ad esempio, dal divieto di turpiloquio, di offesa, di aggressività verbale. Semplicemente dal rispetto dell’altro.

È per molti di loro inimmaginabile che tutto non sia assolutamente sempre ovvio nel momento in cui lo pensano buono per se stessi e così è per i loro genitori, per la politica, per la società. E quando un piccolo limite oggettivo si concretizza, come il numero chiuso a scuola o un’assemblea negata per giusto motivo, scatta la rabbia di lesa maestà e la rabbia è buona nemica del pensiero. Quanto alla sostanza violenta del fascismo, anche qui ci si scontra con qualcosa di diffuso che è la profonda accettazione sociale della violenza.

La violenza dei rapporti sociali, anche quelli più nobili come il confronto politico oppure sportivo, è parte della nostra vita e la violenza fisica non spaventa davvero perché c’è un immaginario costruito da film, videogiochi, giochi di ruolo che ci fa concepire sempre dalla parte di chi la forza ce l’ha e la esercita sull’altro e l’altro è spesso solo una categoria (straniero, avversario politico o sportivo) e non una persona e quindi possiamo ( possono) non sentire l’offesa della violenza agita. Per cui studiano il fascismo illiberale e violento con la stessa partecipazione con cui studiano lo schiavismo nelle civiltà antiche. Deplorevole ma non ci (li) riguarda.

E allora come si fa? La scuola un po’ di strumenti ce li ha. Il tempo, ad esempio. Se resiste alla pressione del risultato ad ogni costo e non insegue le attese di tutti, ha 10 spesso 13 anni di tempo in cui scegliere di far conoscere davvero, attraverso lo studio serio e documentato, i meccanismi con cui il fascismo allora e la tentazione fascista ora sono riusciti e riescono ad assopire il senso critico, a illudere di grandezze millantate. Anni in cui far sperimentare davvero la convivenza, mostrare un esercizio della libertà che è soprattutto partecipazione che cambia le cose e non sopraffazione. Decostruire attraverso la consapevolezza la percezione malata di una libertà come infinita espansione di sé e come infinita distrazione da sé. Non inseguire il mondo ma conoscerlo nel dolore delle sue ingiustizie. La violenza del pregiudizio politico e razziale è sorella della violenza che ci fa sentire perennemente (pre)giudicati da stereotipi di successo, di posizione sociale, di possesso.

Complicato? Sì e no. È una vera e propria resistenza quella a cui la scuola è chiamata e in molti a scuola la stiamo facendo. Chi altri la sta facendo? Poi certo si può essere convinti che non ci sia sostanziale progresso sotto il sole e che siamo destinati a ripetere e ancora ripetere gli errori del passato, ma anche da questa posizione di disincanto chi sta tutto il giorno con i ragazzi sa che provare insieme a costruire o anche solo a resistere è molto meglio che scivolare nella connivenza con il male della sopraffazione.

Da La Repubblica5 dicembre 2017

se è il tribunale a doverci dire che un bullo si può bocciare

C’è voluto il Tar del Piemonte, per dirci che la scelta di un istituto superiore della Val di Susa di bocciare per un 5 in condotta il bullo della scuola è legittima. I genitori del ragazzo avevano presentato ricorso. Eppure, la legge sul punto è chiarissima: il 5 in condotta porta alla bocciatura.

La premessa necessaria è che a un 5 in condotta si arriva per gradi: è la fine, non l’inizio di una storia. Ci dev’essere un anno di comportamenti problematici, recidive, interventi tentati. E in effetti nel verbale della scuola piemontese si legge che nei comportamenti dello studente, iscritto alla seconda, c’era stato «un crescendo di gravità», che aveva creato nei compagni «un clima di tensione e, in alcuni casi, paura». Facile dire: così si criminalizza un singolo. No, quel ragazzo ha ancora diritto alla nostra fiducia, ma dall’altra parte c’è una collettività da tutelare. Sarebbe terrificante pensare che vadano salvaguardati solo i diritti dei “buoni”, in una scuola che ha il compito di lavorare soprattutto al fianco di chi ha più bisogno. Ma uno solo non può tenere in scacco la libertà di molti. Allora il punto oggi non è che qualcuno è stato bocciato, che da qualche parte una storia di scuola non ha funzionato. Ma è capire cosa spinga dei genitori (che questa storia la conoscono fin troppo bene) a tentare di bypassare questo punto fermo, che per il ragazzo potrebbe diventare un’occasione di crescita. E a dire: “vediamo se riusciamo a fargliela sfangare anche stavolta”, anziché piuttosto: “abbiamo un problema, mettiamo in gioco tutte le nostre energie per risolverlo”.

Dietro dev’esserci o una sfiducia enorme nella scuola o un’incapacità enorme di leggersi, e leggere le dinamiche dei nostri ragazzi. Non so cosa sia peggio. Oggi è fin troppo comune il tentativo di salvare comunque la forma della storia scolastica di un figlio: ma la sostanza resta, non si può eliminarla. Certo: un ricorso è un modo di attivare la rabbia, che attenua il dolore inevitabile di fronte a questa decisione della scuola. Ma una famiglia dovrebbe ricordare che a prenderla è stata una comunità educante, che nel farlo sa fin troppo bene a cosa si espone. E il fatto che sia stata presa all’unanimità ancor più dovrebbe indurre a prenderne atto, anziché combatterla.

Tanti genitori oggi faticano ad accettare che il figlio non sia esattamente come lo avevano sognato. E non stiamo dicendo che sia cattivo, non è quello il punto. Anzi: è un ragazzo, questo è fondamentale. E non va mai pensato irrecuperabile, perché a 15 anni tutto è ancora possibile. Ma proprio per questo dovrebbe intervenire una sorta di fiducia collettiva, che porti a dire: la scuola ha dato a mio figlio un segnale. Mi fido, ora che facciamo?

Da La Repubblica7 ottobre 2017

scuola, l’obbligo fino a 18 anni non è la priorità

Più scuola per quasi tutti e meno scuola per qualcuno? Oppure più scuola ma per tutti? Le notizie estive sulla scuola chiedono una bussola o ci si perde. Accanto al liceo breve che porta al diploma un anno prima adesso la ministra Valeria Fedeli fa una dichiarazione di intenti a favore dell’innalzamento dell’obbligo scolastico da 16 a 18 anni.

In realtà il “diritto all’istruzione e alla formazione per almeno dodici anni o comunque sino al conseguimento di una qualifica di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età” esiste dalla legge 53/2003, ribadito in successivi decreti e poi di fatto sfumato dalla Buona scuola ma non dal Jobs Act che prevede che gli studenti delle scuole statali dai 15 ai 25 anni di età possano accedere a contratti di apprendistato per 36-48 mesi ai fini del conseguimento del diploma. Si tratta dell’avvio di un sistema duale simile a quello tedesco che però in Germania parte da un impianto dell’istruzione completamente diverso e molto legato alle differenze esistenti fra i Länder. Questo significa che qualsiasi nuova idea sulla scuola deve tenere conto dell’esistente e soprattutto di un esistente costituito da novità non ancora a regime e non ancora verificate nella loro efficacia.

Se il diritto dovere all’istruzione e alla formazione non si è ancora realizzato dal 2003 ci sono delle ragioni che vanno esplorate prima di introdurre altri obblighi.

E poi ci sono le priorità. In questo momento la priorità è la dispersione, ancora troppo alta (tra il 15 e il 20% a seconda delle indagini) rispetto ai Paesi dell’Unione europea (11%). Se non riusciamo a tenere i ragazzi a scuola fino a 16 anni non sembra che innalzare l’obbligo a 18 renda la cosa più facile. Altra priorità è l’analfabetismo funzionale, e cioè il fatto che gli italiani giovani e adulti nella bella misura del 28% non sono in grado di comprendere testi d’uso e di tipo argomentativo. L’Italia è penultima in Europa e quartultima al mondo in questa competenza, il che vuol dire che ragazzi e adulti si formano convinzioni politiche e anche pseudoscientifiche (i dibattiti “scientifici” sui social sono spesso surreali) attraverso slogan o appartenenze. Una manna per i demagoghi di tutte le appartenenze, una tragedia per la democrazia. Poi c’è la priorità di una scuola pubblica che non è più fattore di promozione sociale ed economica come è stata fino a un tempo abbastanza recente e anche questa è una tragedia.

E infine c’è la priorità data da un’integrazione culturale assolutamente necessaria, che diventa non solo esercizio di giustizia verso chi arriva da noi pieno di bisogni ma anche di diritti, ma anche un’assicurazione sul futuro della nostra convivenza. Bisogna tenere insieme i ragazzi, italiani e stranieri, a scuola e dare loro una lingua. Questo è (quasi) tutto. Non è poco ma l’obbligo e diritto all’istruzione si misura non in quantità ma, si potrebbe dire, in intensità e qualità dell’esperienza vissuta. In questi anni la scuola non ha avuto un giorno di pace in cui riflettere su se stessa e sull’efficacia delle riforme che si accavallano, e la cui armonizzazione con la normativa esistente è poi lasciata alla mitizzata autonomia scolastica. L’azione educativa può agire nella povertà dei mezzi (e lo abbiamo imparato a fare egregiamente) ma non nella confusione e nell’emergenza continue.

Più istruzione è ovvio che è sempre una cosa buona. Ma se allungare più o meno la frequenza sia una cosa buona è una domanda senza senso. Dipende dalla qualità, dalla bellezza, dalla capacità di offrire esperienze significative che permettano di essere a scuola in modo personale, vigoroso, attivo. E di imparare.

Da La Repubblica, 24 agosto 2017

maestri incapaci di insegnare

E l’Italia scopre di avere un esercito di maestri incapaci di insegnare
Bologna. Cinquemila respinti agli scritti per elementari e materne. Ma la colpa non è solo loro

La notizia è che in Emilia Romagna solo il 24% dei candidati al concorso per entrare di ruolo nella scuola primaria e il 16,5% dei candidati alla scuola d’infanzia ha superato le prove scritte. Il rigoroso meccanismo dei concorsi che ha letteralmente strizzato le possibilità organizzative dell’amministrazione scolastica (banditi in tempi strettissimi, in corso d’anno scolastico, le commissioni nominate e rinominate vorticosamente, senza esonero dalle lezioni e pagate un nulla) non porterà a coprire i posti disponibili. La stragrande maggioranza delle cattedre non andrà a ruolo.

Il Direttore dell’Ufficio scolastico regionale Stefano Versari dice che per la scuola d’infanzia il problema è stato il livello culturale basso, mentre per la scuola primaria mancava la preparazione didattica.

Si trattava di candidati laureati, la maggior parte di loro già in cattedra da anni. La prova scritta prevede 6 domande, tutte legate a situazioni concrete che richiedono da un lato la conoscenza della normativa e dall’altro la capacità di giocarla creativamente in situazioni concrete di scuola. Il presidente coordinatore delle commissioni alla scuola d’infanzia Emilio Porcaro parla di gravi incompetenze ortografiche, sintattiche e didattiche. Mancava l’abc del buon docente, insomma.

Se il livello è questo, giocare la carta del discredito sulle commissioni esaminatrici non ha senso. Qualsiasi candidato che non sappia scrivere in italiano corretto non può fare il docente e va fermato. E anche se non ha idea di come trasferire nella classe le sue conoscenze. In questo senso il concorso, previsto dalla Costituzione come modalità di reclutamento, fa esattamente il suo dovere. Solo che arriva alla fine di una serie di errori e inadempienze e allora appare ingiusto e scandaloso.
La vicenda del concorso in Emilia Romagna racconta un pezzo della nostra storia. La scuola come lavoro-rifugio. Chiunque pensa di poter insegnare e invece non è vero. Ma lo si pensa perché negli ultimi trent’anni, in mancanza di un sistema regolare di reclutamento, tanti hanno potuto insegnare di fatto, senza concorsi e selezione, per accumulo di punteggio di servizio e titoli i studio, anno dopo anno, con meccanismi di salvaguardia per cui alla fine in qualche modo nella scuola si entra e soprattutto si resta. Inamovibili. Provi un preside a fare una contestazione a un docente, di ruolo o no. Un calvario.
Racconta anche la storia di una mortificazione sistematica delle competenze linguistiche che è comodo ma sbagliato imputare alla scuola. Non è la scuola di massa il problema. È l’ignoranza di massa accettata ed esibita. Si impara la lingua per esposizione, esposizione alla buona lingua, e se la società non legge, non sa parlare e pensare e di questo non si preoccupa e per questo non sente vergogna, se anche la politica esibisce la sciatteria del linguaggio e del pensiero, non c’è scuola che possa trovare un rimedio.

Racconta anche la storia di un Paese confuso, che da un lato vuole giustamente mandare in cattedra chi sa insegnare bene e dall’altro continua ad offrire pochissimo agli insegnanti davvero bravi: scuole con pochi mezzi, stipendi che dicono “il tuo lavoro non vale niente”. I candidati bocciati continueranno ad insegnare da precari, perché i posti ci sono e le cattedre vanno coperte. Il concorso ci rivela un bel po’ di mali della nostra società più che della nostra scuola.

Da La Repubblica, 11 giugno 2017

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