Esce in Italia il romanzo della scrittrice Eowyn Ivey, scelto come miglior esordio per la narrativa da Barnes & Noble. Il racconto è ispirato a una fiaba russa tradizionale e si svolge negli anni Venti tra i ghiacci. I protagonisti incontrano una bimba che cambia il loro rapporto con la felicità.
C’è tanta luce in questa storia, eppure non è un paradiso il mondo in cui vivono Jack e Mabel, i due protagonisti. Sono scappati in Alaska, estenuati dall’attesa di un figlio che non arriva, annientati dal dolore di averlo perso proprio quando ormai sembrava aver già trovato spazio nelle loro vite. Cercano il silenzio, che promette forse una forma di pace. Non più la paura che un qualsiasi suono di bimbo li trapassi piegandoli in due di dolore e nostalgia e perdita assoluta, irrimediabile: vita promessa, solo intravista, già amata e già perduta, prima che quel loro bimbo, o forse bimba, nato senza un suono, senza una voce da ricordare, almeno quella, e senza calore, finisse sepolto in una terra appena meno fredda di quella che ora abitano.
E invece la paura prende forme improvvise e anche l’incanto assoluto di un tramonto rosa trasparente sulle montagne coperte di neve, azzurro non ancora cupo sul fiume, già scuro sulla foresta di abeti e sui boschi di pioppi, può diventare bellezza che squarcia l’anima, se si è ancora vivi e se un sogno impossibile ancora ci abita. E allora la morte diventa l’unica vera promessa di pace.
Ma il desiderio è potente. Ed ecco, una neve perfetta scende su un crepuscolo triste come tutti gli altri e alleggerisce i pensieri e i gesti. Le mani che hanno rinunciato alle carezze lavorano in armonia a creare una bambina di neve, gioco infantile e insieme compimento struggente ed effimero dell’immenso desiderio.
La bambina c’è anche in una favola che Mabel ascoltava da piccola, una vecchia favola scritta in una lingua a lei sconosciuta, sconosciuta come la felicità che cerca, dal finale tristissimo. Ma forse è possibile inventare finali nuovi alle storie, e “scegliere la felicità invece del dolore”. La felicità inattesa e impensata è ora una bambina vera, che mangia, parla e ha un nome bellissimo: Pruina, “luce dopo il tramonto”.
Ma non rimane. Ma ritorna. Ma poi riparte. Forse non è la felicità sognata, però l’attesa non è più vuota e la vita ha un’allegria nuova che permette di alzare gli occhi su quel che sta intorno e non più vedere solo la terra gelata da lavorare. E arrivano anche relazioni nuove, prima prudenti e poi indispensabili. La turbinosa Esther, (quasi) vicina di casa, madre ferrea di tanti maschi, non lascerà che Mabel scappi ancora dalle sue paure.
Siamo nel 1920, in Alaska, la terra della scrittrice, appunto. Un altro secolo, un altro mondo. Eppure meravigliosamente nostro, lo stesso corpo a corpo con la vita, piena di incanti e di crepe. Accanto al bianco della neve che tutto copre e regala una perfezione che non dura c’è improvviso ma non inatteso, necessario, il rosso del sangue reale, feroce, di tanti meravigliosi animali: l’alce immenso la cui carne assicura la sopravvivenza fino a primavera, la volpe rossa, l’ermellino, l’orso, il gulo gulo, e anche un cigno bianco. Cielo divino, si può uccidere un cigno bianco? Macchiarne il candore immacolato? Due volte immacolato nella neve appena scesa sul mondo, miracolo di una creazione rinnovata? Si deve se l’alternativa è la morte, il non esserci di questa vita insieme voluta e tremenda, piena di bellezza, delusione, desiderio, fallimento, allegria, passione.
È un romanzo dell’anima, questo primo bellissimo libro di Eowyn Ivey, autrice dal nome parlante: Eowyn come la principessa di Rohan, nel Signore degli anelli.
È costruito con immagini potenti che si fanno abitare da chi legge, e non si sa quale scegliere: la pattinata notturna sul ghiaccio del fiume Wolverine; oppure ancora il ghiaccio che non vuole cedere al desiderio di morte di Mabel. Nel dolore è facile sprofondare. Nel fiume gelato a volte no. Non si muore quando si vuole.
Ed è pieno insieme di piccole, nascoste vertigini in cui ci si trova a sospendere il respiro: lei che non ha voluto vedere, abbracciare e salutare la sua creatura nata già morta e in anni di fantasticherie colpevoli ha immaginato sempre che fosse una bambina, da entrambi vergognosamente abbandonata senza cura in una qualche fossa, e invece scopre, quando finalmente chiede, che era un bambino, che suo marito l’aveva battezzato, con un nome importante e pieno di personalità. Potenza della parola finalmente detta. E può a sua volta salutarlo per sempre. Lo spazio per la bambina di neve ora c¿è. E anche per una felicità nuova, si è appresa l’arte di lasciar partire, di non volere più trattenere.
È anche un romanzo di donne forti di una forza che si deve avere, e di uomini che resistono fin che possono, forse non sempre capiscono, ma ci sono.
Ci si chiede dove sia qui il divino che Jack invoca ogni giorno prima di consumare il cibo conquistato nel rischio più estremo. Forse nella capacità di accogliere la felicità quando viene, senza sospendere la vita nell’attesa, senza paura di perderla.
Perché non rimani? chiedono a Pruina. Perché la felicità non rimane? Perché non posso tenerla, afferrarla, accudirla? Perché forse è come la luce del tramonto raccontata dal nome di Pruina: c’è stata, l’abbiamo avuta e goduta, non può essere afferrata. Ma tornerà. E una storia prende vita, una lunga bella storia dal finale inatteso, nel caso della bambina di neve.
“Sono qui”. Ecco le parole del miracolo assoluto, incomprensibile ogni volta: l’incanto dell’esserci. Per sé. Per chi si ama. “Sono qui”, dice Pruina quando torna.
Un entrare e uscire dal sogno di felicità. E non bisogna chiedere di più. Forse non bisogna chiedere e basta.