Ha la pazienza di Giobbe, si dice. Non si dice è un Giobbe, come ad esempio si dice è un Ercole, è un Giuda. Giobbe ha avuto pazienza, l’ha fatta sua ma non è diventato la rappresentazione della pazienza. Infatti la perde in un preciso momento, sia nella versione dell’Antico Testamento, sia nella versione di Joseph Roth (Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, Adelphi, Milano 1978).
In modo del tutto sorprendente, in una pagina in cui nulla lo fa immaginare, il Giobbe di Roth, che si chiama Mendel Singer, perde la pazienza, già all’inizio delle sue sventure, il giorno in cui la moglie Deborah torna a casa dopo aver consultato un rabbi in profumo di santità il quale le ha annunciato che il figlio da poco nato, Menuchim, afflitto da una grave disabilità, «dopo lunghi anni» guarirà (20s).
Gli altri tre figli di Mendel fanno una festa chiassosa e scomposta al ritorno della madre, fanno dondolare violentemente la cesta che fa da culla al fratellino, non l’avevano visto da giorni, una reazione bambina così normale, e invece Mendel Singer perde la pazienza, picchia violentemente i figli con la cintura, «un tumulto sinistro si scatenò sulla sua testa» (22) quasi un presentimento di quel che sarebbe stato, una conoscenza anticipata di tutto il dolore che lo attendeva. O che avrebbe potuto attenderlo.
In quanto uomo, esposto alla povertà, alle malattie, alla guerra, alla morte dei propri cari. Mendel Singer non è un uomo semplice, in realtà. Conduce una vita povera, fa il maestro, insegna la Bibbia ai bambini, nella cucina della sua casa. Non è mai uscito dal villaggio di Zuchnow, nella Volinia russa. Non ha significative prospettive di migliorare la propria vita, se non attraverso il possibile benessere futuro dei propri figli. Ma non è per niente semplice.
Quando le sventure lo raggiungono lui continua ad abitare la relazione con Dio. A occhi aperti, sempre. Fino all’ultima pagina quando accetta di andare in automobile di sabato perché Dio è «così grande che la nostra cattiveria diventa piccolissima» (187). La misericordia non si misura sulle nostre infedeltà.
Quando si legge o rilegge il Giobbe di Roth si «cade nel pozzo». Non ci si può staccare perché racconta di noi, proprio noi oggi.
«Singer sembrava aver poco tempo e tutte le mete urgenti. Certamente la sua vita era una perpetua fatica e alle volte perfino un tormento» (10). La condizione dell’uomo, che attraversa il tempo. Un perpetuo affaccendarsi, nel bene e nel male. La fede non preserva dalla condizione dell’essere creature esposte. Preserva, a volte, dalla disperazione.
E infatti Mendel Singer non è disperato. I figli vengono chiamati a fare il militare, uno va e uno invece si sottrae e parte per l’America. Disertore agli occhi del governo, salvo ai suoi occhi. Ma la pena è grande. Ma ancora Mendel Singer non è disperato. La figlia Mirjam se la intende con i cosacchi, infedeli e nemici.
Mendel Singer decide di partire per l’America, di raggiungere il figlio lontano pur di sottrarre la figlia diletta all’abisso. Non è contento, tutto è ancora tormento, ma non è disperato. Anche il dover lasciare Menuchim in Russia, pur affidato a brava gente, lo tormenta, ma non lo fa disperare.
C’è un momento, quando davvero si sta disperando, dopo che un figlio è morto in guerra, soldato per l’America «paese di Dio» (127), come volevano fargli credere, dopo che la moglie Deborah è morta di dolore e la figlia Mirjam è impazzita, dopo che Mendel Singer ha tentato di «bruciare Dio» senza riuscirci, c’è un momento in cui comprendiamo qualcosa della forza di questo Giobbe antico ed eterno.
Mendel non prega più: «“Io non prego” si diceva Mendel. Ma non pregare gli faceva male» (157). La sua rabbia lo addolorava, Dio reggeva il mondo anche se Mendel era in collera, lui sentiva che il suo odio non toccava Dio, «né più né meno della devozione» (157). La giornata di Mendel disperato comincia con questi pensieri, così diversi da quelli che lo accompagnavano prima. «Prima il suo risveglio era lieve, la lieta attesa della preghiera lo destava e il piacere di rinnovare la consapevole vicinanza a Dio. Dal grato tepore del sonno penetrava all’ancor più segreto, ancor più intimo splendore della preghiera… “Buon giorno, padre” – diceva Mendel Singer – e credeva di sentire la risposta» (157).
Ora pensa che sia stato un inganno tutto, ma la memoria di un’intimità esistita rimane come parte di noi, è stata reale come esperienza e rimane reale come una forza che non ci può essere sottratta, che nemmeno sappiamo di avere, anche se vorremmo poter lasciare la vita che ci ha tradito.
Singer lo dice così bene quando la moglie muore: «Tu stai bene, Deborah. Il Signore ha avuto compassione di te. Tu sei morta e sei sepolta. Di me non ha compassione. Perché io sono morto e vivo ancora» (141).
C’è un momento che viaggia in parallelo con il Giobbe biblico, quando gli amici di Mendel Singer lo vanno a trovare e discutono con lui delle sue sventure. Lui le elenca e di questa lunga dolente rassegna colpisce che quasi tutte le disgrazie che lo hanno colpito sono opera dell’uomo. Un figlio è morto in guerra, l’altro è disperso in guerra, la moglie è morta di dolore, la figlia ha patito la cattiveria di tanti uomini.
Solo il dolore innocente di Menuchim non viene dalle mani degli uomini. E su questo mistero alla fine del libro si stende il miracolo della guarigione. Che si allarga anche alla moglie Deborah che «con occhi ignoti, dell’aldilà, forse viveva il miracolo» (194). È la mano di Dio, vicino anche quando Singer s’allontana, o ci prova, a riconciliarlo con «il proprio piccolo destino» (176).
Da Il Regno, 15 ottobre 2019.