Ad essere civili? A controllare le parole che pronunciamo irrimediabilmente? A raccontare storie che ci fanno abbracciare?
A ricordare. Quel che molti ci hanno offerto. E i desideri che frullavano le nostre mattine. Senza misura e durata. Promesse di tutte le creazioni possibili.
A ostinarsi, e a non lasciare che la furia d’esistere di cui ci sapevamo felicemente impastati si lasci sfumare dall’abitudine a pensare pensieri comuni, desideri di tutti, circoscritti di sicurezze, troppo presto diventati cemento di muri alla cui ombra adattarsi, invece che pensieri dispersi, consegnati e ritornati freschi con la grazia e la larghezza di un campo di nuovo fiorito senza sforzo alcuno dalla polvere invernale.
Ricominciare dopo essere stati frodati di tutto, incompiuti, inflitti, mancanti, senza un bene da rivendicare, un bambino da accudire e grazie al quale dimenticarsi, senza essere eroi, con la grazia unica, tutta nostra, ricevuta e forse per un poco dimenticata, di poter osare tutta la libertà, santi non necessariamente, ma divini sì, in quella vita ricevuta che è per sempre nostra, forza, luce, in fondo, dentro, che esce quando non l’aspettiamo, ma la vogliamo, e ci fa ricominciare quando tutto sembrava perduto.
Avvenire, 11 maggio 2012
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