madre che asseconda la vita

La madre che muore ci porta con sé per tutta intera quella parte di lei che ci accompagnava ogni istante presente, o sullo sfondo, pensiero o soprassalto di emozione lontana. Nel racconto di Ferdinando Camon questo è un compito che, senza intenzione, come portato, si assume il padre, mentre i figli e i nipoti e i campi, le vigne, la terra fanno da coro. Coro di sguardi e di silenzi, lui è il solista.

Un altare per la madre è esattamente come una musica che si ama. La si ascolta e riascolta e ci rassicura con i passaggi che conosciamo così bene da aspettarli con impazienza, quasi mandati a memoria. E insieme ci sorprende con un’immagine nuova, scappata alle altre letture oppure resa nuova dal nostro essere ogni giorno nuovi, riscritti dalla vita, a volte sottolineati, come quando la nostra madre se ne va senza il giusto avviso.

«La bara avanzava ondeggiando». È così. Portate a braccia le bare ondeggiano, appena un poco sopra le teste, chi se n’è andato ancora rimane un poco con noi, fra noi e il cielo, incerto di poter partire. Forse con i nostri riti gli diamo il permesso. O lo tratteniamo in modo scomposto, e così ondeggia sul nostro dolore incerto.

Qui è morta la madre: «Ora la madre era morta, ma questo non era possibile».

L’amore per la madre non conosce la pena di un lento venire meno come capita ad altri amori che ci lasciano la tristezza di non aver potuto fissare splendido e immobile il nostro sentimento. L’amore per la madre è per sempre. Sia quando lo abbiamo assecondato sia quando siamo scappati e lo abbiamo troncato rabbiosi, e la rabbia lo ha reso più accanito e presente.

La madre che muore ci porta con sé per tutta intera quella parte di lei che ci accompagnava ogni istante presente, o sullo sfondo, pensiero o soprassalto di emozione lontana. Lei c’era e il mondo era in ordine.

«Di questo mio essere vivente faceva parte anche mia madre, doveva farne parte per sempre, io vorrei pregarla di smettere di morire, ma forse nella sua morte c’è stato un errore, mio, nostro – di noi tutti che le vogliamo bene – e tocca a noi rimediare, richiamarla in vita, non rassegnarci».

Nel racconto di Ferdinando Camon1 questo è un compito che, senza intenzione, come portato, si assume il padre, mentre i figli e i nipoti e i campi, le vigne, la terra fanno da coro. Coro di sguardi e di silenzi, lui è il solista.

La scrittura qui è perfetta. Il tema, la sequenza di suoni che permette alla musica, alla vita, di non implodere, finita nell’immobile ripetere gesti, si mostra da lontano: «Sono tornato dai miei ma non ho trovato in casa nessuno, la casa era spalancata e deserta. Sono andato a cercarli sui campi e mi son seduto sotto un vigneto. Li vedevo muoversi tutti insieme, lontani, all’orizzonte, e non capivo che lavoro facessero. Certi lavori qui sono fatti ancora all’antica, i movimenti che una volta mi sembravano naturali adesso non li capisco più. Mi sembrano scaduti. Ci dev’essere qualche estraneo in mezzo ai miei, perché vedo una figura che sta sempre in piedi, non si curva mai, dunque non lavora».

È lo straniero a portare una storia di lei che nessuno in famiglia conosce. Durante la guerra, mentre scappava da chi lo inseguiva in auto cantando con i fucili che sparavano fuori dai finestrini, la «signora», così lo straniero chiama la loro madre, si è alzata di scatto dalla «muretta» dove stava seduta: «Drento, drento, curi curi», ha gridato. «Dentro, dentro, corri corri».

Salvato da lei, nascosto dietro una parete che non c’è più, ma lui conosce il punto esatto in cui tutto è capitato e il padre vuole sapere, perché il padre «vuole sempre sapere tutto» e perché questo punto è il varco, la storia che riprende a essere storia e non terra di cimitero pronta a gelare nell’inverno di pianura.

Bisogna ricostruire il muro della salvezza, ricostruire questo pezzo di vita, miracolo di vita salvata che moltiplica le vite salvate come i pani e i pesci del Vangelo.

Il resto è una liturgia senza regole, un forsennato lavoro di mani, ginocchia, sangue. Il padre ricompone pietra su pietra la costruzione dove la salvezza è avvenuta. Trova le fondamenta, è a un incrocio di strade. Sta con lei mentre lavora. Vede quel che lei vedeva, sente le campane da dove lei le sentiva, mentre lui era in guerra. L’idea dell’altare è naturale come quel che è venuto prima. Quel luogo può diventare casa per uno degli altari davanti ai quali si ferma la processione annuale delle campagne.

È la processione che fa conoscere i malati da visitare. Non ci sono altari da quelle parti ed è importante averne uno per i malati. Mancano solo due settimane alla processione. Manca il materiale con cui costruire l’altare. Mancano anche le forze ma bisogna. Non la vince la corsa contro il tempo il padre, come è giusto. L’altare è pronto due ore dopo il passaggio della processione e della benedizione. Ma il tempo lo fanno gli uomini infine. Sono loro a permettere che sia legge oppure vita. L’altare per la madre è vita e il prete la riconosce.

«Quando gli altri uccidono, bisogna salvare il più possibile. Quando gli altri muoiono bisogna inventare una forma di immortalità».

Non è un trattenere la madre. È il progressivo faticoso acquisire che la madre è eterna nel bene fatto, segreto dentro i gesti necessari e diventato improvvisamente folgorante nel punto luminoso in cui lei ha salvato l’uomo, vincendo la morte grazie a questo spontaneo assecondare la vita, che è arte divina consegnata agli uomini.

Mariapia Veladiano

da Il Regno – attualità, 15 ottobre 2016

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