11Non sanno il loro valore queste giovanissime donne degli specchi che abitano le aule di scuola. Ci sono stati giorni in cui per un insegnante, in classe, i concorrenti da sconfiggere erano i diari. Personali o scolastici, i diari trovavano il modo di riempirsi proprio negli interstizi misteriosi che il tempo lungo delle ore di lezione a sorpresa sempre regalava. Oggi la battaglia è con gli specchi, distrattori per nulla fragili, meravigliosamente polimorfi: tondi, lunghi, stretti, a orologio, ad anello. Lo specchio è la conferma di un istante: sono bella? Forse no, anzi no. Ma forse la prossima volta che mi guardo sì. E allora riprovo, e ancora e ancora. Perché, se alla fine sono bella, allora esisto. Flusso incerto di sguardi dati e ricevuti ma dagli stessi propri occhi esigenti. Esigenti perché la bellezza delle donne oggi è stretta in un canone feroce, fatto di forme, colori, misure, accessori, lusso anche.
Riprodotto uguale sulla carta, in televisione, nelle passeggiate del sabato. E anche a scuola: gli insegnanti conoscono il tremendo colpo d’occhio del “colore di moda” quando si entra in classe. Il male presente è un’omologazione che costringe dentro schemi anche l’essere contro: cyber, emo, truzzo, goth. E così la splendida incertezza tutta adolescenziale, che si culla fra il bisogno di essere visti e quello di non esserlo troppo, e che dovrebbe portare a quelle forme di maldestra scomposta originalità che rende a volte goffi, primo tratto incerto della propria personalità, diventa un impossibile esistere sospesi tra il desiderio di essere originali e il non poterlo essere, perché ogni tentativo ha già un codice che lo comprime. Si deve evitare un’esposizione che non si sa sopportare e quindi l’omologazione protegge, ma si deve anche essere visti per la persona unica che siamo. Per cui capita che le ragazze vivano una intollerabile esistenza d’ombra in cui la possibilità di essere originali è paradossalmente affidata alla perfezione dell’omologazione: la bellezza del canone.
E lo specchio allora non restituisce conferme ma paure. Di non essere conformi a un’immagine che non possono raggiungere, di non esistere.
E il dramma abita a volte incomprensibilmente dentro la loro oggettiva strepitosa bellezza, che non basta a salvarle. Così è stato la settimana scorsa per Domynika Synoviec, 17 anni, che ha lasciato la vita proprio nel bagno della sua scuola. Così perfetta da aver vinto a Capodanno un concorso di bellezza: era miss Starlight.
Si ha bisogno dello sguardo che abbraccia e tiene il tessuto della vita. Lo conosce bene la sapienza biblica fin dalle sue prime pagine quando Dio vede che il mondo è buono e l’essere umano è molto buono. E poi nello splendido Salmo 139: “Tu mi scruti e mi conosci… hai fatto di me una meraviglia stupenda… ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi”. E nel Vangelo, dove lo sguardo del Messia vede i desideri di ciascuno, anche quelli che ancora non sappiamo di avere, come capita a Matteo o a Zaccheo. È lo sguardo dell’altro che conosce e riconosce. Anche il diario era a suo modo uno specchio, ma alleato. La distanza della scrittura chiedeva silenzio e pensiero. L’elaborazione di un sé reale chiede lo spazio di un silenzio che oggi non c’è quasi mai. Cellulari e social network assicurano la connessione permanente, il cordone vitale col mondo che alimenta queste esistenze in bilico. Se la rassicurazione di sé non è interna ma viene da fuori, deve essere continua, può venir meno in ogni momento, va verificata sempre. Non si ha mai una rendita di sicurezza con cui vivere lo spazio dell’assenza. Ma è l’assenza che tiene il nostro essere e anche i nostri rapporti. Per quanto si stia insieme, in un rapporto il tempo in cui si è soli supera quello in cui si è insieme all’altro. La perenne connessione è eterna dipendenza. Espone a una fragilità irrimediabile, in cui ogni piccolissimo movimento imprevisto della vita diventa una frana.
Le ragazze sono oggi molto più esposte al pericolo di non poter costruire un’immagine di sé autonoma dallo sguardo giudicante del mondo, perché i modelli di donna proposti dall’orgia visiva che le assedia sono a una dimensione. Se non c’è la bellezza del canone, misurata pezzo per pezzo come sul lettino di un anatomopatologo, temono che non contino né l’intelligenza, né la preparazione, né la personalità.
In fondo desiderano che non sia così, ma la malerba della paura di illudersi può sospendere le loro energie. E gli adulti spesso lasciano che questo capiti, per una deriva in gran parte inconsapevole della loro volontà, che non crede più di poter cambiare il mondo. Per cui amano di un amore che sentono vero ma che è talvolta impotente e a scuola, nelle riunioni, si dicono l’un l’altro che non sanno cosa fare per le loro figlie meravigliose che si vedono perennemente brutte.
È possibile che queste giovanissime donne degli specchi trovino la forza di reagire alla signoria dell’immagine. Accade quando la loro età confusa conosce il dimenticarsi buono che può venire dalle passioni e dalla cultura, e non solo il dimenticarsi vuoto offerto dallo stordimento del sabato, atteso dal lunedì. E anche quando trovano l’adulto che sa corrispondere al desiderio, umanissimo e originario, di essere visti e importanti per qualcuno. L’esperienza di essere amate per quel che si è.
da La Repubblica, 11 febbraio 2011
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