La notizia è che a Napoli la preside dell’Istituto comprensivo Ilaria Alpi- Carlo Levi di Scampia non ha ammesso in classe un ragazzino di 13 anni che si è presentato a scuola con un grappolo di treccine blu elettrico sulla testa e una chiostra di rasatura intorno.
Una furia di reazioni da social. Facile facile il linciaggio: è un minore, il diritto allo studio, il diritto alla libertà di espressione, la scuola non è un lager, la preside è questo e quest’altro. Reato di lesa libertà.
La preside si chiama Rosalba Rotondo, lavora a Scampia da 26 anni, prima come docente e poi come preside. Vuol dire che ha scelto di lavorare a Scampia.
Nel suo curriculum ha progetti di inclusione, contro la dispersione, ha coinvolto la sua scuola in ogni programma di recupero rivolto a ragazzi borderline, è stata coordinatrice per la sua scuola del Progetto Chance, quello dei Maestri di strada, creato dal maestro Marco Rossi Doria e da Carla Melazzini. Decine di ragazzi cui è stata data la possibilità di salvarsi da destini altrimenti segnati.
Di lei colpisce il registro linguistico, nelle interviste: parla insieme da preside, da educatrice, da rappresentante di un’istituzione che sente soprattutto come presenza etica per il quartiere e gli studenti. Conosce il ragazzo e la sua storia e difende il suo diritto a un futuro desiderato.
Del ragazzino sappiamo che viene da una realtà complicata come può capitare, che ha talento per la musica e per la matematica e che proprio per questo è inserito in una masterclass che gli permette di valorizzare le proprie capacità. C’è un mondo scolastico positivo intorno a lui, che ne ha visto e valorizzato le capacità.
È chiaro che in astratto ciascuno può pettinarsi come vuole, anche a scuola. Ma non esiste niente di astratto quando si parla di scuola e di educare. C’entrano il luogo, la storia, la persona. Si può immaginare che la percezione di un cambiamento rispetto a una realtà sociale e culturale che fa fatica a offrire una speranza di futuro, o anche solo molto complessa, passi anche attraverso l’esperienza di un ambiente positivamente diverso, definito, in cui le regole sono non più strette, ma più visibili e che questa visibilità vada preservata come parte del progetto educativo, faciliti un senso di appartenenza positivo.
D’altro canto si tratta di regole discusse con i genitori e condivise, tanto che i capelli blu sono stati notati dai genitori degli altri bambini prima che dalla preside. Un patto che sta funzionando se i genitori stessi lo sentono proprio, e che certo non viene rotto da un incidente. E infatti la preside ha convocato la mamma del ragazzo e insieme hanno concordato un percorso: il ragazzo viene a scuola, non è quindi escluso, fa le prove con l’orchestra, frequenta i corsi di eccellenza di matematica, ma rientrerà in classe quando si sarà riappropriato, insieme alla famiglia, della regola già condivisa e sottoscritta, che disciplina anche i capelli: niente creste, shatush o treccine.
È pensabile che il progetto educativo di quel ragazzo richieda un tipo di contenimento diverso rispetto a quello di un altro. Lo facciamo continuamente a scuola. A volte per non andare a scontri frontali che chiuderebbero il rapporto, abbiamo due, tre, dieci, trenta pesi e trenta misure nell’intervenire in classe. Uno lo richiamiamo, l’altro facciamo finta di non vederlo per un po’ di volte. L’altro lo riprendiamo solo in colloquio riservato e così via. Dipende.
Anche qua, dipende. In ogni ambiente il look manda messaggi. Le scuole d’Italia sono abitate da teste di ogni colore, e non solo dei ragazzi e delle ragazze: anche docenti e presidi portano la libertà del mondo dentro le aule. La scuola è un mondo in cui tutto è segno ma lo è per quell’ambiente e per quella scuola. In un contesto che all’interno di un patto educativo ha accettato un dress code condiviso una inosservanza gridata può essere una sfida. Ad esempio proprio all’autorevolezza della scuola rappresentata dalla preside.
Probabilmente tutto si sarebbe sciolto in qualche giorno di dialogo e di progressivo rientro del ragazzo in classe. Chi ha preferito interessare del caso la politica e il Miur sapeva che ci sarebbe stata una bufera. Adesso è tutto un po’ più complicato. Bisogna evitare di strumentalizzare il fatto e favorire la ricomposizione del rapporto di fiducia fra una scuola e una preside che tutti i giorni tengono il punto di una realtà educativa in cui la forma è anche sostanza di rottura rispetto a contesti esterni difficili. Questo chiaramente vale per tutte le scuole del regno, non solo per quella di Scampia.
Fuori da scuola Lino, 13 anni, all’ingresso della scuola Levi-Alpi di Scampia. Oggi ci tornerà con sua mamma: finché avrà le treccine seguirà i laboratori ma non entrerà in classe.
Da La Repubblica,16 settembre 2019.
Emanuele Borgato
22 Ottobre 2019 at 14:47Un’insegnante che ha lavorato e sceglie di far la preside a Scampia. Valorizzare “i talenti” con la determinazione dell’educazione. Lasciar lavorare chi con passione e dedizione ha a cuore le giovani generazioni: i media meglio se van ad abbagliare altre realtà.