il chierico provvisorio

Virgilio Scapin è stato scrittore, libraio, gran maestro e priore della Venerabile confraternita del bacalà alla vicentina, fine e impertinente osservatore della sua città e della campagna che la circondava e che raccontava nei suoi libri con ironia divertita, senza malevolenza o giudizio. Alla storia bastava la sua messa in scena. Il chierico provvisorio (Longanesi, Milano 1983) racconta la sua vocazione mancata. Siamo a Vicenza, il fascismo guida con decisione la rovina dell’Italia, la piccola borghesia operosa che ci ha creduto troppo, ma senza entusiasmi particolari, si attorciglia per sfangarla fra cambiali e topi che rosicchiano la roba.

È un romanzo che ci restituisce un mondo. Dopo un incidente in cui si è maciullato i piedi e distrutto la spina dorsale mentre era fuochista alle Tramvie vicentine, il padre del protagonista è liquidato «con una manciata di castagne» (14) e faticosamente diventa proprietario di un magazzino di generi alimentari: «Nel mezzo del primo stanzone (il magazzino ne aveva due contigui) campeggiava con le zampe poggiate su quattro mastelli di crauti, un enorme coccodrillo di cartapesta, il dorso trafitto da una lancia. Qui era appeso un cartello: “prodotti coloniali”» (13).

È il 1935 e il coccodrillo fa il suo ingresso quando i soldati italiani sbarcano in Eritrea e Somalia e «a dar credito alle autorità, c’era solo da allargare le botteghe e da arruffianarsi gli importatori» (13). Poi arrivano le sanzioni internazionali, di prodotti nemmeno l’ombra e il coccodrillo finisce preso a calci dal padre furioso.

Il piccolo Beato Serafini, si chiama proprio così, va alla scuola privata del patronato, dai padri Giuseppini. Costa e quindi è frequentata dai figli dei ricchi e proprio perciò il padre lo iscrive lì, perché «dai ricchi c’è sempre qualcosa da imparare» (22). Solo che a frequentare i ricchi può capitare che si finisca col vergognarsi delle dita sporche di unto con cui il padre firma i bei voti e dell’odore che resta attaccato ai quaderni. La ribellione necessaria dell’adolescenza si manifesta attraverso il violento rifiuto degli odori legati al lavoro del padre: baccalà bagnato, salamoia, formaggio, orina di gatto, aringa, sudore. Beato non riesce a stargli vicino, vomita, lo credono ammalato e così si rifugia nella chiesa del patronato, dove fra profumo di cera, lino, incenso lascia passare il tempo finché dalla finestra entra il colore della sera.

Così lo nota padre Silvio dalla pelle chiara e dalle mani magre «ma piene di dolcezza, fatte per toccare l’ostia consacrata» (57). Nello spazio di un breve colloquio fra padre Silvio e suo padre, durante il quale la madre scappa e la nonna gli promette di comprargli la tonaca, il piccolo Beato si convince «davvero di essere votato a Dio» (65).

Per qualche anno la vita di collegio, nelle campagne vicentine, è solo sfiorata dalla guerra. Per Beato la guerra arriva prima attraverso le visite del padre: «Povero papà! Era diventato magro, la giacca gli cadeva sulle spalle e i suoi occhi avidi e curiosi s’erano fatti spiritati… Lavorava come una bestia per tirare avanti e io avrei dovuto aiutarlo» (75). Poi attraverso la fuga precipitosa dal collegio, di notte, quando il pericolo non arriva ormai più dai tedeschi in fuga che ignorano quel gruppo di ragazzotti in tonaca, ma da un gruppo di partigiani che invece qualche tentazione anticlericale ce l’avrebbero.

Finita la guerra la formazione riprende. La vita di collegio piena di disciplina e di fame, fra superiori pieni di umanità oppure solo accomodati in un mestiere. Si parla di una certa avidità dei padri che tenevano nascosto ogni ben di dio mentre i novizi si ammalavano d’inedia, oppure di due compagni di vocazione sorpresi, loro stessi sorpresi, da emozioni cui non sanno dare il nome e allontanati in gran segreto. Non c’è giudizio su nessuno. Così è il cuore dell’uomo.

Irresistibile (da insegnante leggevo ad alta voce a scuola queste pagine quando arrivavo al 1948 in storia) è il racconto di come i novizi hanno vissuto le prime elezioni dell’Italia repubblicana. La sera prima delle elezioni i novizi sono convocati dal padre direttore: «Domani figlioli sarà un giorno difficile per la nostra madre patria. Si svolgeranno le elezioni politiche e noi dovremo pregare intensamente perché gli anticristi non vincano e scatenino la rivoluzione. Estote parati. Pregate nel vostro cuore perché se necessario, Dio vi infonda la fortezza dei martiri e salvi la Chiesa» (232).

Il giovane Beato Serafini la mattina del 18 aprile si lava, si cambia e mette abiti nuovi adatti al martirio, scrive due testamenti, uno materiale e uno spirituale e aspetta, lo sguardo rivolto al cancello che dà sulla campagna perché certamente da là gli ugonotti sarebbero arrivati a infilzare i chierici.

Sappiamo com’è andata. Beato Serafini non muore martire ma con un movimento lento di progressivo sbiadirsi del fervore, perde la vocazione e torna a casa, a piedi, con la sua valigia pesante. Lungo la strada si ferma in un’osteria di campagna e mangia pane intinto nel vino bianco. Una piccola ebbrezza. La vita è una e tutto si tiene. La campagna intorno è diventata come un mare verde. Beato immagina di poterla «percorrere in lungo e in largo, disteso sull’erba, all’ombra dei gelsi» (319).

Da Il Regno, 15 giugno 2017

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