Oggi si direbbe che Fontamara di Ignazio Silone (San Paolo, Cinisello Balsamo [MI] 1997) è un libro divisivo.
Per alcuni è datato perché a quasi un secolo di distanza dai fatti narrati i cafoni protagonisti della storia ora sono altri, qualitativamente diversi, soprattutto niente hanno a che fare con la terra. Un libro a tesi con qualche errore perché a primavera i cafoni sono analfabeti e in autunno invece costruiscono un giornalino rivoluzionario, e che giornalino.
Per altri invece è un classico, dove i personaggi sono archetipi, dove le dinamiche sono figura di quelle di oggi, perché il potere è sempre potere e quello fa, dominare i poveri con la legge e l’inganno. E, soprattutto, la terra è sempre terra. E anche l’acqua. Da cui tutto parte. E l’acqua era tutto nel primo libro della Genesi, dove nel Paradiso terrestre i fiumi sono quattro, era tutto nel 1929, quando prende inizio Fontamara, ed è tutto oggi, in questi giorni in cui compulsiamo il meteo a cercare la pioggia.
Il romanzo è stato pubblicato nel 1933 in lingua tedesca. Silone era in Svizzera, il fratello era morto in prigione torturato dai fascisti appena un anno prima. La storia è ambientata nella Marsica, al confine fra l’Abruzzo e il Lazio. Il nome del paese è inventato ma sta dalle parti del lago Fucino, prosciugato per fare spazio a ricche colture di frumento che all’epoca erano in mano a grandi proprietari e che i piccoli contadini continuavano a sognare di poter un giorno possedere in ragione di una giusta redistribuzione.
Tutto comincia con un inganno, l’ennesimo. Una sera un forestiero arriva in paese e intercetta gli uomini raccolti di ritorno dal lavoro e li induce a firmare dei fogli. Una petizione, dice il forestiero, al nuovo Governo che finalmente ascolta i cafoni. Soprattutto assicura che non c’è niente da pagare. Niente da pagare è la formula magica per chi è poverissimo e così i presenti uno a uno firmano e poi il forestiero semplicemente aggiunge le firme di chi manca ed è già andato a casa.
Nessuno sa bene che cosa ha firmato, ma la mattina dopo il corso dell’unico ruscello che porta acqua alle aride terre di Fontamara viene deviato verso le terre dell’Impresario appena nominato podestà, un parvenu del regime fascista ormai ben assiso sulla cadrega di un potere non più così nuovo, ma che i cafoni di Fontamara nemmeno conoscono.
Il resto è uno scivolamento verso la catastrofe. Qualsiasi cosa i cafoni facciano, pacifica, sgangherata, meno pacifica, finisce in ulteriori inganni. Spinti da don Circostanza, un eminente che ritenevano amico, accettano che l’acqua sia suddivisa fra loro e il nuovo padrone nella misura di due terzi e due terzi, e a chi non sa la matematica può sembrare cosa equa. Poi ancora accettano che l’accordo non duri cinquant’anni come proposto dall’Impresario, ma dieci lustri, come media don Circostanza. Appunto.
Bisogna rileggerlo questo romanzo, è un capolavoro di come il potere manipoli l’ignoranza, che oggi è forse meno elementare, ma ignoranza rimane. Di faccende economiche, fiscali, di rappresentanza politica e di partecipazione sociale.
Poi, e anche prima, perché il racconto ne è davvero intriso, c’è il filo tenace, la trama fitta e però tremendamente sfilacciata della fede. I cafoni che vanno a protestare per l’acqua lo fanno in nome di Dio. Rubare l’acqua è «un sacrilegio mai visto» (39). Quando vengono cooptati dai fascisti per un’adunata ad Avezzano e devono portare il gagliardetto, nemmeno capiscono che si tratta delle bandiere nere col teschio e si portano appresso la nobile insegna di san Rocco, prelevata dalla Chiesa, al passaggio della quale le donne dei campi s’inginocchiano mentre i fascisti la deridono.
Il prete don Abbacchio è un poveraccio, uomo di potere e senza fede, il più blasfemo di tutti i commensali ubriachi che, con i cafoni alla porta che aspettano udienza, si lanciano in una surreale sfida sull’Onnipotente (51).
Ma la trama religiosa è soprattutto nelle figure tragiche di Berardo ed Elvira. Berardo è un cafone senza terra, un gigante buono intriso di senso della giustizia. Nipote di un brigante, destinato a finire ammazzato come il nonno, secondo la profezia della madre Maria Rosa. Elvira è la ragazza che lo ama. Nel momento in cui Berardo decide per disperazione di cominciare a cercare il suo bene invece del bene degli altri, e va a Roma per farsi assumere nelle bonifiche dell’Agro Pontino, Elvira gli ricorda che lei è dell’altro Berardo, quello che lotta contro l’ingiustizia, che si è innamorata.
E parte in pellegrinaggio verso il santuario della Madonna della Libera e chiede alla Vergine d’«intercedere per la salvezza di Berardo», in cambio della sua stessa vita (201). Morirà subito dopo, Elvira, di una misteriosa malattia che la brucia. E intanto Berardo, a Roma, viene arrestato per errore e si sacrifica per salvare un oppositore del regime, che è in cella con lui, e muore di percosse e torture, esattamente come il fratello di Silone.
«E Berardo si è salvato?» mormorò una donna, rivolta alla madre a proposito del voto di Elvira. «Forse, rispose la vecchia Maria Rosa. Nessuno può sapere». «Strana salvezza morire in carcere», disse l’altra sottovoce. «Nessuno può sapere, ripeté la madre». E le tocca ripeterlo tre volte di fronte alle obiezioni della donna. «Forse la salvezza di Berardo è stata essere restituito al suo destino» (201s).
Strana salvezza morire in carcere. E anche morire in croce, di sicuro.
Un romanzo bellissimo, eterno nella semplicità delle dinamiche umane che racconta.
Il Regno – attualità, 15 maggio 2023.
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