donna, madre, prigioniera

Quando nel 1906 pubblica Una donna, Sibilla Aleramo ha trent’anni e almeno quattro vite sulle spalle.1

La «fanciullezza libera e gagliarda» di cui parla all’inizio del romanzo che, al di là dei necessari scostamenti narrativi, è una trasparente aspra autobiografia dei sentimenti e delle emozioni. L’età bambina è trasfigurata dal sogno, non perfetta certo, ma avvolta da «un’armonia delicata e vibrante», da «una luce». Sibilla Aleramo è prima figlia di una famiglia piemontese, ricca di beni e di idee, amata dal padre che lei idealizza come è normale che capiti, educata a una libertà di pensieri e di progetti alquanto singolare per una ragazza dell’epoca.

C’è poi la sua vita di sposa bambina accanto all’uomo che l’ha violentata, a sedici anni, nella piccola cittadina delle Marche in cui la famiglia si è trasferita seguendo il lavoro del padre. Un luogo in cui Sibilla scopre il mare, la spiaggia delle passeggiate piene di vento e sole dove «tutto scintillava» e «per la prima volta aveva la rivelazione della bellezza del mondo» e insieme scopre che esistono persone e pensieri impensabilmente più circoscritti, quasi primitivi rispetto a quelli che ha frequentato e conosce.

Le donne chiuse in casa, a spiare le vite degli altri e a praticare il veleno della chiacchiera, gli uomini fuori, gagliardi, a tradire le donne e a farsene vanto. La violenza sul suo corpo arriva nel pieno di quel confuso irrompere del sogno d’amore che non ha ancora forma né parole quando si è ancora meravigliosamente giovani e nuovi. Per cui quella violenza alla fine non poteva essere frutto di un istinto innominabile o peggio di un calcolo. Doveva essere amore. È senza tempo questo bisogno che pretende di trasformare in amore la violenza subita, perché è impensabile, indicibile, intollerabile scoprirsi oggetto rubato da mani violente proprio quando si è tutte intere, tutti interi, pronti a regalarsi, a darsi senza calcolo e limiti.

La terza vita arriva con la maternità, a cui Sibilla si abbandona come alla felicità. Ed è felicità. Le pagine che raccontano l’amore per il suo bambino sono luce. L’ombra del marito va e viene molesta. Ma l’amore di lei per il figlio riempie i giorni e le pagine. Impossibile leggere quel che segue se non dentro l’impressione di questo amore.

E poi c’è la vita da cui racconta. Già oltre, e per sempre dentro, una seconda violenza, che stavolta ha il tratto assoluto della tragedia, quando qualsiasi scelta porta con sé un carico di ingiustizia e di dolore al quale non è dato sottrarsi.

La convivenza con il marito violentatore è solo dolore. Non nasce amore dal malamore. Andarsene con il bambino è impossibile. Il marito non lo consente, per orgoglio, per il potere che deve tenere agli occhi del mondo e di se stesso. Così come non permetterà che la moglie entri in possesso di una sua rilevante eredità. Niente possiede una donna di suo. Nemmeno il diritto di uccidersi. Sibilla ci prova maldestramente, col veleno, ma viene salvata. È un’epoca in cui le donne passano dal padre al marito e se nel matrimonio non c’è niente che ricordi un poco almeno l’affetto, la felicità possibile ha l’unica forma del sacrificio di sé nell’amore per i figli.

Sibilla scopre qui una lettera della madre, infelice e tradita come le altre donne. «Debbo partire… qui impazzisco… lui non mi ama più. Ed io soffro tanto che non so più voler bene ai bambini… debbo andarmene, andarmene. Poveri figli miei, forse è meglio per loro!».

Una storia che si ripete, la madre era rimasta, la sua infelicità aveva avvelenato i figli. Anche lei salvata da un tentato suicidio, ma non dalla malinconia e poi dalla follia. Storia uguale a quella di tante donne tenute insieme dalla tenerezza verso una vita da accudire.

«Mi piaceva guardar nelle tenebre, non ne avevo paura», scrive Sibilla di sé bambina. La tenebra è qui una scelta che non può schiarirsi. Restare per il bambino e sacrificare la sua felicità (possibile) di donna piena di attese, come tutti, o partire, obbligata a lasciare il bambino, e sacrificare la felicità che viene dall’accompagnare nella vita il proprio figlio? E lui? Cosa è bene per lui?

L’esito della tragedia è quasi sempre la morte. Fisica morte che sopprime il dilemma e moltiplica il dolore. Sibilla sceglie di vivere. Se ne va, per il bambino oltre che per sé. Per non infliggergli l’infelicità della vita di lei sacrificata. «Perché nella maternità adoriamo il sacrifizio? Donde è scesa a noi questa inumana idea dell’immolazione materna? È una mostruosa catena. (…) Per quello che siamo, per la volontà di tramandare più nobile e più bella in essi la vita, devono esserci grati i figli…».

Un romanzo non è mai (solo) un’autobiografia. È anche una nostra storia a noi riconsegnata, un poco squadernata a nostro beneficio.

«Come avevo potuto? Ero un povero essere dal quale la mano di un chirurgo ne svelle un altro per evitar la morte di entrambi». Quanto alla felicità, è parola che quasi non si può pronunciare.

1 S. Aleramo, Una donna, Feltrinelli, Milano 2003.

Si Il Regno, “Riletture”, 15 aprile 2015

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