C’è questo stupore che il tempo continui, continui oltre il nostro dolore. Com’è possibile che le persone abbiano ancora un’intenzione, una meta da raggiungere, un’incombenza da sbrigare, magari in fretta e di corsa, senza niente pensare. E il governo un decreto astratto e indifferente da votare, assenti tutti dai banchi, tranne gli interessati. Perché ancora sono convinti che un interesse, il loro interesse, valga la pena. Mentre il mondo è tutta una pena. E tutti fan finta di credere a qualcosa: la cena da preparare, il bollo da incollare.
Bisogna averla conosciuta la disperazione. Toccato la fine del nostro mondo, addossati al confine ultimo, niente più in là. Non il caldo di un desiderio che ci aspetta almeno come promessa, non le mani che ci sfioravano e che abbiamo perduto, nemmeno la fantasia, la più bugiarda delle promesse. Niente. Niente.
E niente si può dire perché la disperazione sente solo parole insincere, che dicono la consolazione senza conoscerla, e fanno male come una predica distratta a un funerale.
Che ci trovino accanto. Silenziose presenze senza pretesa. Senza giudizi. Senza soluzioni. Dove trovar pace. Una vastità accogliente. Che non giudica. Che offre riposo. Non siamo soli, non siamo soli.
E niente si può dire perché la disperazione sente solo parole insincere, che dicono la consolazione senza conoscerla, e fanno male come una predica distratta a un funerale.
Che ci trovino accanto. Silenziose presenze senza pretesa. Senza giudizi. Senza soluzioni. Dove trovar pace. Una vastità accogliente. Che non giudica. Che offre riposo. Non siamo soli, non siamo soli.
Avvenire, 14 aprile 2012
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