Rileggere un romanzo tre volte in pochi mesi ed essere pronti a ricominciarlo. Perché oltre a raccontare una bella storia di famiglia che prende fino allo struggimento è anche un’unica lunga riflessione sul tema della libertà e la predestinazione, sull’amore paterno verso un figlio che non si sa capire e che proprio per questo è il più presente e amato, una riflessione sulla fatica di credere e l’impossibilità di non credere.
Un canto di fiducia verso la bontà di Dio che non si lascia comprendere ma che si mostra nella bellezza improvvisa di un vento che fa nuovo il cielo, nella gioia assoluta di un ritorno ormai insperato, nella sorpresa di una confidenza che ci fa scoprire simili.
Casa (Einaudi, Milano 2016) è il secondo romanzo della trilogia che Marilynne Robinson compone intorno alle famiglie di due amici pastori della cittadina di Gilead, nell’Iowa. Il primo è Gilead (Einaudi 2008 – cf. Regno-att.14,2018,422) che ha la forma di una lunga intensa lettera del pastore congregazionalista John Ames al piccolo suo figlio, arrivato per Grazia a sorprendere la sua vecchiaia.
Questo secondo riprende un personaggio che ha fatto una breve apparizione in Gilead, si tratta del giovane John Ames Boughton che tutti chiamano Jack, figlio del reverendo Boughton, pastore presbiteriano che del pastore John Ames è amico fraterno da sempre, tanto che ha chiamato il figlio con il suo nome. Il reverendo Boughton ha otto figli, tutti amati e bene accuditi e cresciuti con la capacità di vivere vite più o meno normali.
Solo Jack ha l’arte di sbagliare quasi ogni parola o gesto. Fin da piccolissimo è stato un bambino difficile senza che fosse possibile definire in qualche modo il suo essere diverso. Intelligente, il più acuto probabilmente dei figli, non sapeva partecipare alla vita di brigata dei fratelli. Non agli scherzi comuni, ne inventava di suoi ma erano fuori registro, imbarazzanti per tutti, a volte eccessivi fino a essere veri reati. Non sapeva partecipare ai giochi serali della famiglia, non ai canti. Sempre fuori stormo.
Finché, da ragazzo appena cresciuto, non ha combinato qualcosa che sappiamo dal primo romanzo. Ha avuto una bambina da una ragazzina a sua volta quasi bambina, poverissima e senza risorse. E lui è scappato, andato via lasciando per anni solo piccolissime tracce del suo vagare. Il vecchio padre, il pastore Bougthon, ha intanto perso la moglie adorata e ha visto partire i figli a far famiglia altrove, come è naturale. E ha saturato la vecchia casa di un’attesa sospesa, piena di paura eppure di fede eppure ancora di paura. Perché Jack di cui non si sa nulla potrebbe davvero aver combinato qualsiasi tremenda cosa.
Quando Jack torna a casa il vecchio padre sente che le sue preghiere sono state ascoltate. La casa torna a vivere anche grazie a Glory, un’altra figlia che a sua volta torna per qualche misterioso motivo, lasciando il proprio lavoro d’insegnante. I giorni sono improvvisamente pieni di scopo. Si deve riparare il rapporto. Jack ci prova. Ha un’abilità innata nell’accudire il padre. Un’eleganza dei gesti. Sicuro come se lo avesse sempre fatto.
Anche il padre ci prova. Il perdono è la sua fede, la sua arte infinitamente coltivata e continuamente messa al riparo dal moralismo. Ciascuno precipita e risale dalle proprie impazienze. Glory ha una illimitata capacità di tessere e riannodare la loro relazione. È di nuovo casa, piena di profumo di ciambelline, bacon e caffè la mattina, di stufato la domenica. Le sedie riparate da Jack. Il giardino e l’orto meglio coltivati. La vecchia auto DeSoto riportata a nuova vita.
E le discussioni. Perché Jack è Jack e sparisce la notte, torna ubriaco, scappa dalle spiegazioni. Non può dire quel che nemmeno lui sa di sé stesso. È predestinato a essere cattivo? Non può che meritare la sua vita? «Nessuno si merita niente, buono o cattivo che sia. È tutta grazia. Se accettassi questo fatto, forse riusciresti a rilassarti un po’» (276).
A parlare con impazienza è il reverendo Boughton e ci crede profondamente, come ci crede in fondo anche Jack, ma quanto a rilassarsi, lasciarsi accompagnare dalla grazia è qualcosa che non sembra poter imparare. E la teologia non pare avere la parola definitiva.
I due reverendi discutono vivacemente di predestinazione alla presenza di Jack e anche di Lila, la giovane moglie del pastore Ames, il cui passato è segreto (lo conosceremo nel terzo libro della trilogia) e proprio quando la discussione si esaurisce senza conclusioni: «Nessuna conclusione?», «Nessuna che mi venga in mente in questo momento» (231), proprio allora Lila sembra dire la parola che salva: «Una persona può cambiare. Tutto può cambiare» (232). Lei lo sa che è possibile. Per lei è stato così. Vale per tutti? E per Jack?
C’è chi è destinato a non avere un sasso su cui posare il capo, sembra raccontare la storia di Jack. Nudus nudum Christum sequi: un umano tutto umano modo di cercare di scappare dalla propria predestinazione.
O forse ha ragione Glory: «Forse il grande dolore o la grande colpa devono semplicemente essere accettati come assoluti, come una rivelazione» (103).
Da Il Regno, 15 gennaio 2019.
Loretta Franceschin
4 Luglio 2019 at 13:44Meravigliosa scrittrice, Marilynne Robinson. Grazie per la recensione dell’unico libro della trilogia che non ho ancora letto…