Quando si scrive di Flannery O’Connor si comincia e si continua e poi si finisce con ampie citazioni di Flannery O’Connor stessa, come se di lei potesse parlare solo lei. Una figura per cui mancano categorie e bisogna accogliere quelle con cui lei si consegna, tranchant e libera fino all’impertinenza: «Vedo le cose dal punto di vista dell’ortodossia cristiana. Questo significa che per me il significato della vita è accentrato nella nostra redenzione attraverso Cristo e quello che vedo nel mondo lo vedo in rapporto a questo». Nel suo Diario, a poco più che vent’anni pregava Dio affinché i principi cristiani permeassero la sua scrittura (cf. Regno-att. 10,2016,295).
È raro trovare professioni di poetica così determinate e allora vien naturale cercare nelle sue narrazioni (poche, due romanzi e una manciata di racconti) qualcosa d’intimamente militante, un storia in cui pur nella congestione delle azioni e dei gesti e degli eventi alla fine il male non sia l’ultima parola. Perché, vien da dire, è questa la fede cristiana, giusto? Che il male non è l’ultima parola.
Così seguiamo Hazel Motes, il protagonista de La saggezza nel sangue (Garzanti, Milano 2010) appena rilasciato dall’esercito, mentre viaggia in treno verso Taulkinham, cittadina che alla fine del romanzo ci è entrata dentro come una pece che incolla i piedi ai marciapiedi e la fatica di percorrerli dice tutta l’assurdità di tentare di vivere.
Eppure Hazel li percorre e di volta in volta sceglie le persone e le situazioni che gli arrivano incontro e così s’accompagna a un’orribile prostituta il cui indirizzo ha visto per caso nel bagno della stazione, accolto in casa sua, e poi insegue un predicatore finto cieco che chiede l’elemosina e lascia che la sua figlia quasi bambina si infili nel suo letto, e acquista un’automobile che vede come materiale promessa di arrivare dritto esattamente ovunque, lancia la sua predicazione della Chiesa della verità senza Gesù Cristo crocefisso dal tetto di questa automobile aspettando i proseliti all’uscita delle sale cinematografiche, distratti luoghi di missione che la modernità gli concede, incrocia il giovane Enoch guardiano dello zoo, segreto adoratore di una mummia di omuncolo custodita in una teca precaria del museo, sicuro come Hazel, sicuro di una missione da compiere, forte di una saggezza che gli dà il suo sangue perché «aveva il sangue che la sapeva lunga» (69).
C’è da dire che ci si dimentica subito di cercare tracce di principi cristiani perché le non-avventure di Hazel sono così bizzarre che pagina dopo pagina le si insegue trascinati senza pensieri e senza quasi attese, portati solo a vedere dove va a finire. E finisce che Hazel ucciderà l’uomo che aveva trasformato in business il suo sincero predicare dal tetto dell’auto. Falso nell’assurdo vestito azzurro che aveva copiato da Hazel, e nel predicare funzionale solo a truffare gli ascoltatori. Lo investirà con l’auto sacramento di salvezza, con determinazione, passando e ripassando sul suo corpo.
Tutto ciò che di esplicitamente religioso troviamo nel libro è tremendo e insopportabile. Il religioso si sottrae completamente al racconto e lascia esistere un mondo che si agita violento o miserabile senza che niente, ciascuno si agita truffaldino o sincero per arrivare alla fine di una giornata senza promessa.
Ma quando Hazel Motes uccide il profeta impostore che aveva sfruttato commercialmente la sua autentica furia predicatoria e ci sembra un mostro, allora viene in mente il suo incontro, nelle prime pagine del romanzo, con l’orribile signora Wally Bee Hitchcock che, seduta di fronte a lui nello spazio angusto del compartimento a cuccette, lo soffoca di ovvietà infilate in sequenza feroce: le prime luci della sera sono «il momento più carino» del giorno (11); «il tetto natio è il paradiso in terra» (13) e siamo sicuri che è quella signora sicuramente devota e perbene a cui Hazel Motes dice «sicuramente si crede d’esser stata redenta» il vero mostro.
Una vita di devozioni, sacre riunioni, quelle giuste non una di più, e niente nessun pensiero e nessuna azione è stata redenta, è diventata libera. Divina e quindi libera. E insieme a lei migliaia di cristiani che hanno pensieri banali disseminati in copia conforme a quelli di tutti, intorno.
In che cosa è cristiano questo romanzo di Flannery O’Connor? Ce lo dobbiamo chiedere perché lei questo voleva scrivere, romanzi cristiani. Forse nella perfetta operazione di lasciare intatto il mistero di un mondo che in nessuna sua parte appare redento. Gesù nasce e gli innocenti sono passati di spada dagli uomini di Erode. La notizia non è che il male è finito. Il mondo è quello che è. Non si crede e allora la propria vita viene consolata.
Non si crede sperando che la propria vita venga consolata. Non si crede per eliminare il male dal mondo. Si crede e la vita è quella che è, piena di oscurità, non senso, violenza. Credere non apre la porta del paradiso in terra. Si è cristiani proprio malgrado, incollati a Cristo. Come Hazel Motes che passa le giornate e le notti inseparabile dal Cristo che deve continuamente chiamare in causa nel suo ossessivo predicare la Chiesa della verità senza Gesù Cristo crocefisso, Chiesa nemmeno nominabile senza Cristo nel nome.
Da Il Regno, 15 maggio 2018.
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