A diventare ciechi si impara duramente. È un apprendistato minuto e quotidiano. Tutt’occhi sono i bambini. Ditini sfoderati che vedono lontanissimo, perennemente stupiti, curiosi, arrabbiati anche, di volere andare e toccare quel che è nuovo e vivo. Capricci che dicono la verità sul bisogno umano di non chiudere gli occhi.
Eppure si impara a camminare fra ali di ignoto, ignorato. Amnesie rituali e irrituali frutto di un addestramento tenace che comincia presto presto.
È il genitore che attraversa la strada all’opposto del lato in cui lontano, da molto lontano anche lui, vede il povero.
E forse non sa di essere stato scritto nel Vangelo.
È il telegiornale che della miseria fa panino, fra uno scandalo e un gossip. Babele delle immagini in cui si frullano bene e male e tutto diventa implacabile e normale.
È anche il nostro bene, curato e ben difeso, con annesso garage sempre più grande, terrazza per le feste, recinti bene alzati.
E anche questo è stato scritto: Gli idoli degli uomini sono argento e oro, opera delle mani loro. Hanno bocca e non parlano; hanno occhi e non vedono. Sia come loro chi li fabbrica.
Finché l’operazione diventa perfetta e si finisce con il non vedere nemmeno la nostra aspra, egoista e solitaria infelicità.
Avvenire, 1 giugno 2012
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