Qui si deve proprio dire che tutto si tiene. E parlare di donne e scuola ci costringe a parlare del nostro mondo. Di qual è l’immagine sociale degli insegnanti. Di quanta importanza è attribuita alla scuola, alla cultura, alla formazione. Di quale prestigio è associato all’insegnamento. Di quanto c’entrano le pari opportunità e l’equità. E infine, dell’ effetto che fa, sulla scuola e sugli studenti. E quindi sulla società.
L’insegnamento è una professione di donne (88% del totale, è l’ultimo dato messo a disposizione dal ministero). Quasi esclusivamente di donne nelle scuole d’ infanzia e del primo ciclo. Appena un po’ meno alle superiori. Il dato è vero per la totalità dei paesi europei, con l’ eccezione della Turchia e in questo caso cercare le ragioni porterebbe lontano. Ma in Italia il divario fra docenti uomini e docenti donne è un abisso e dal momento che da noi la disoccupazione è in prevalenza donna – siamo il paese dell’ Unione europea con la percentuale più bassa di occupazione femminile – ci si può certo fare qualche domanda. Che cosa racconta della nostra società il fatto che l’ insegnamento sia una professione soprattutto di donne? Che l’ insegnante non è considerato socialmente, ad esempio. E dire dove stia la causa e dove l’ effetto è un altro bel tema da svolgere. Ma è un luogo comune degli studi sull’argomento il riconoscere che la figura dell’ insegnante non si accompagna a prestigio e potere.
Eppure dovrebbe, a pensarci. Un tempo, la letteratura ce lo ricorda, capitava. Non il potere di inculcare principi e conculcare coscienze, come è stato detto in tempi anche troppo vicini, ma il potere di coltivare il sapere critico, di far innamorare della libertà, di dare gli strumenti per difenderla, di perseguire l’ equità. È poco? No, ma non è quello che conta nell’ immaginario sociale abbagliato da decenni di potere arrogante, ostentato, impunito. Perché in Italia laddove c’ è potere nel senso di visibilità, denaro, prestigio, ci sono uomini. Anche nella scuola.
Il rapporto fra maschie femmine inverte il segno se si guarda alle funzioni direttive, fino all’ università. Malgrado le donne siano il 58% dei laureati, le ricercatrici universitarie sono il 40%, le docenti associate il 32% e le ordinarie il 14%. Le donne rettore sono due (dati del “Rapporto ombra 2012” del Cedaw, Convenzione dell’ Onu per l’ eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne). La grande presenza delle donne a scuola racconta poi che l’ insegnamento è da noi visto in continuità con il lavoro di “cura”, che lo stereotipo di genere lascia ancora alla donna. Anche se poi alla scuola si chiede di preparare alla “società della conoscenza”, e la vastità dell’ espressione viene declinata soprattutto in termini di misurazione degli apprendimenti, standard in uscita, accesso all’ eccellenza. E ancora la scuola delle donne racconta perché è possibile pagare così poco gli insegnanti. I lavori a prevalenza femminile sono pagati meno di quelli in cui i maschi sono ben rappresentati. Perché sono percepiti meno importanti, gregari, meno qualificanti. Stereotipi fortissimi in Italia. È vero che condividiamo il fenomeno con l’ Europa, con una differenza sostanziale però: altrove i governi si preoccupano e mettono in atto programmi per migliorare l’ equilibrio di genere fra insegnanti, da noi no.
I rapporti Eurydice, la Rete di informazione sull’istruzione in Europa, raccolgono regolarmente queste iniziative che riguardano Irlanda, Olanda, Regno Unito, Norvegia, Repubblica Ceca. Noi no. E ci sono anche paesi che hanno progetti precisi per attirare più donne verso le posizioni direttive nell’ istruzione. Noi no. L’ attuale situazione ci dice che sarà difficile un cambiamento in tempi brevi, perché i precari della scuola sono soprattutto donne, perché nel momento in cui un ragazzo sceglie il precorso formativo spesso ha davanti a sé un modello cui ispirarsi e non è facile avere incontrato modelli di insegnanti maschi, perché la scuola non offre alcun tipo di carriera professionale né interna né verso l’ esterno, perché l’ insegnante è stato negli ultimi decenni destinatario di ogni tipo di accusa: fannullone, assenteista, manipolatore delle coscienze. Il tutto, caso praticamente unico al mondo, alimentato dall’amministrazione che lo aveva assunto e che avrebbe dovuto sostenerne il lavoro per il bene di tutti.
Ci si può chiedere se sia così importante avere una presenza equilibrata di uomini e donne a scuola. Certo che sì. Semplicemente perché, scrive un rapporto Eurydice, “gli insegnanti hanno un ruolo cruciale nella comprensione dei ruoli di genere da parte dei giovani e anche la comprensione del loro stesso genere ha molta influenza e può contribuire o a mantenere o a rompere gli stereotipi di genere nella scuola”. Semplicemente perché è bene che i ragazzi vedano uomini e donne collaborare fra loro e per la loro formazione. Come sarebbe bene che accadesse nella società tutta. E per questo ancora più importante è che il tema del genere sia presente nella formazione iniziale degli insegnanti e nella formazione continua dei docenti. Così non capiterebbe più di vedere, l’ ultimo giorno di scuola, in una primaria, i regali di una piccola lotteria contraddistinti da post-it rosa o azzurri e, soprattutto, di scoprire che i regali delle bambine sono bambole-spazzole-diari-col-bordo-rosa-bomboniere (!) e quelli dei bambini sono libri-lego-costruzioni. Capitato e visto. Con corredo di proteste (quando gli studenti ci insegnano!) delle bambine che volevano i regali dei maschi (non il contrario).
Anche se, andando a leggere quale effetto abbia avuto l’ essere l’ insegnamento un lavoro di donna in questi anni di stralunate riforme e controriforme, verrebbe da osservare che forse per la scuola è stata una fortuna, perché, e questo è uno stereotipo pure, ma forse no, le donne sono piuttosto attrezzate a resistere alle bufere e nell’ emergenza fanno quel che devono, anche più di quel che possono. E se la scuola primaria, ad esempio, che era per qualità fra le prime dei paesi misurati dalle indagini Ocse-Pisa, non è sprofondata insieme alla sua riforma, lo si deve alla capacità delle maestre (e dell’uno virgola per cento di maestri) di far più del richiesto, di inventarsi strategie per far fronte a classi sempre più numerose e sempre più multietniche e sempre più problematiche.
Ma così non va bene, evidentemente. Né per le donne, che rischiano di alimentare per necessità lo stereotipo di un missionarismo legato al genere, né per la professione, che deve restare professione appunto. Né per gli studenti, che a scuola potrebbero percepire tutto l’ impegno della società, maschi e femmine, per la loro educazione e invece son costretti a raccogliere l’affanno volonteroso di un inseguire emergenze, di adattarsi a riforme non condivise, di un colpevole disinteresse dello stato verso il loro futuro. E però qui la stessa cosa è raccontata dalla simbolica degli spazi: le scuole sono soprattutto aulifici, contenitori di studenti buoni e attenti, luoghi magari storici, però inadatti alle splendide energie di adolescenti in vigorosa esplorazione del sapere e del mondo. Ecco perché tutto si tiene.
Detto che un maggiore equilibrio fra insegnanti uomini e insegnanti donne gioverebbe, resta che il problema è un aspetto di quello generale di una distribuzione del potere in ogni campo fortemente legata al genere e davvero, visti i risultati, c’ è da preoccuparsi molto di più per il concentrato di uomini di potere in politica, nell’editoria, nell’industria, nell’economia, nella finanza. La scuola che funziona c’è eccome. E per ora, senza averlo cercato, le donne ne portano spesso il merito.
Su La Repubblica, 4 settembre 2012
Nessun commento