Cari professori, usate la grazia

Finalmente i ragazzi tornano a scuola. A gennaio le superiori riaprono con addosso gli occhi del mondo. E le attese del mondo. C’è chi si aspetta soprattutto che venga recuperato il “tempo perduto”. Una corsa da riprendere, dopo l’interruzione, doppia, della pandemia.  Possono essere i genitori più orientati al risultato, come si dice, che cercano nel successo scolastico una protezione dal futuro incerto e difficilmente prevedibile e governabile in questo mondo impensato in cui ci troviamo a vivere ormai da quasi un anno. Oppure possono essere quei docenti che si sono trovati più in sofferenza con la didattica a distanza, perché sono mancati i mezzi, o non avevano competenze mai richieste prima d’ora, oppure perché la disciplina si adattava con oggettiva difficoltà al nuovo modo di insegnare. Se si aggiunge che qualche scuola rientrerà con il primo quadrimestre non ancora chiuso, il rischio, magari nella buonafede di tutti, è un’orgia di compiti e interrogazioni.

Ecco, non si può.  A tornare saranno gli adolescenti che il virus ha compresso in casa in compagnia di tutte le belle e tremende ribellioni dell’età inquieta. In ogni caso si torna in classe in un tempo ancora sospeso. Senza la certezza di poter restare. Se ci sarà una terza ondata, come si dice.  C’è chi torna toccato dal lutto, oppure dalla malattia sua o dei suoi cari, oppure sfiorato dalla paura o devastato da una sofferenza psichica nuova. Ragazzi che non vogliono più uscire di casa, per non parlare di andare a scuola. Ogni passaggio di questo anno scolastico può costruire o distruggere e molto dipende da quanto gli adulti, i docenti, sapranno valorizzare la nuova prossimità con i ragazzi. Non esiste nessun tempo perduto se ogni esperienza diventa valore. E non è un tema, come dire, solo da specialisti. Non si tratta di moltiplicare gli psicologi a scuola. Si tratta di attivare la capacità riparativa di una buona vita di classe e civile.

Uscendo da casa i ragazzi riprendono quel movimento di autonomia dalle famiglie che è una componente fondamentale della crescita e i docenti sono chiamati a riconoscere le ferite, le fragilità con cui si presentano. Che somigliano probabilmente a quelle che viviamo in tanti, ma gli adulti siamo noi e sta a noi attivare attitudini di ascolto e riparazione. Un compito educativo, umano e civico che chiede libertà dall’ansia del fare.

“Fare” molte cose  visibili e universalmente riconosciute come “cose di scuola” è rassicurante per tutti. Ci rassicura anche rispetto al desiderio di un ritorno alla normalità, alla scuola com’era. Ma non sarà più com’era e va anche bene così, visto che da anni non riusciva a riparare le disuguaglianze. L’ombra della fragilità la accompagnerà. Non si potrà ripartire da dove si era interrotta. C’è da costruire una scuola pronta a mille forme diverse di prossimità.  A volte resistere è assecondare il tempo nuovo che viene.

La scuola che riapre riattiva processi di equità. La possibilità della didattica a casa è legata a quelle condizioni socio, economiche e culturali che determinano, secondo tutte le indagini sugli apprendimenti, i risultati scolastici. E la crisi economica è stata subito crisi scolastica. Questi ragazzi che abbiamo perso torneranno a scuola più diseguali e dobbiamo trovare insieme ai compagni di classe modi di recupero di intensità nuova, con l’aiuto della società civile. Capita già  in tanti posti, da Milano (l’associazione Non uno di meno, di ex docenti e presidi, che affianca le scuole) a Palermo (le Comunità educanti). Si può davvero fare.

Da La Repubblica, 4 dicembre 2020.

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