Rileggere Ban Zhao nel tempo del #MeToo. O meglio, del #postMeToo, cioè di un tempo, arrivato talmente presto da autorizzare ogni tipo di sospetto, in cui gongolano di sollievo le voci della restaurazione rozzo-populista-qualunquista.
La vita di Asia Argento non è stata quella della Bella addormentata dentro la teca di cristallo? Allora cada lei, chiunque a lei abbia dato retta e soprattutto il #MeToo, il movimento di un mondo di lingue, colori, storie di sofferenze fino a ora trattenute nel chiuso della vergogna, perché il giudizio degli altri poi fa di tutte, ciascuna di noi, quel che ha fatto con Asia: le esplora, le indaga fin dalla culla, da bimbe avevano le gonnelline corte con i pizzi, da giovani andavano a ballare, hanno avuto un morosetto balzano e quindi no, non sono attendibili.
Le donne tacciano. Se il loro parlare ha anche solo un’ombra, anche solo un sospetto, allora tacciano e tornino al silenzio dei secoli. Il movimento aveva finalmente portato in questo mondo aumentato, virtuale del web quel che nel mondo reale da sempre si sa, e cioè che il nostro vivere è (ancora) saturo di sessismo, di stereotipi di genere malati perché inibiscono il desiderio (di essere astronaute, astrofisiche ad esempio) e lo orientano (ad accontentarsi di quel che viene loro concesso, ad esempio).
Per un po’ si era pensato che la battuta pesantemente maschilista, il complimento pesantemente carico di sottintesi potessero essere riconosciuti per quel sono, ovvero violenze, piccole violenze che però aprono le strade alla accettazione sociale di altre violenze, perché mettere il confine non è facile quando l’argine dell’ammiccamento complice è stato rotto e i bambini crescono pensando che in fondo questo ammiccare sessista è lecito e divertente, ecco, e invece no, tutto rientra e si butta il buon bambino della riflessione di genere con l’acqua sporca del mixer mediatico che pigramente non distingue: il #MeToo era una invenzione, pubblicità facile di donne isteriche. Esagerazione che limita i maschi nel loro gioco seduttivo. Bloccati dalla paura di essere fraintesi. Poveri. Non ci si crede che stia capitando.
Ad affacciarsi ancora su quell’universo aumentato e virtuale che è la Rete c’è da sgomentarsi. Basta uscire dalla propria bollicina consolatoria e autospecchiante di amici e amici degli amici e cercare un profilo pubblico non amico e si vede. Il linguaggio sbracato e volgare è sempre sessista, anche, paradossalmente, quando è in bocca alle donne. La libertà d’offesa è sempre violenta e insieme sessista. Così il massimalismo sciatto che mette insieme gli altri quali che siano: stranieri, immigrati, non italofoni, poveri, diversi da chi?, e donne.
E allora Ban Zhao? Ban Zhao (Precetti per le donne e altri trattati cinesi di comportamento femminile, Einaudi, Milano 2011) era un genio. O almeno un faro. È vissuta fra il 45 e il 116 d.C in Cina, nel cuore dell’epoca della dinastia Han (206 a.C-220 d.C. circa) quando i principî del confucianesimo vennero ripresi in chiave più sessista, riletti secondo un formalismo dei ruoli che oggi viene riconosciuto come un allontanamento dall’etica della responsabilità individuale che era il cuore della sua filosofia (riprendo qui il saggio iniziale di Lisa Indraccolo, nel testo).
Bene. Ban Zhao era una donna colta, figlia e sorella di letterati di corte. Rimasta vedova giovane, non si risposa, diventa storica di corte benché non ufficialmente, e scrive. Precetti per le donne è un librino in 7 capitoli idealmente rivolto alle sue figlie, in cui si rivolge alle donne ma in realtà parla agli uomini.
In principio, fin dalle prime righe, colloca le donne all’unico posto loro riconosciuto nella società dell’epoca: «Una donna deve sottomettersi con umiltà e portare rispetto, mettere gli altri davanti a sé e se stessa per ultima; se ha dei meriti non deve farne parola, se ha dei torti deve negarne l’evidenza» (7) eccetera.
Da una posizione saldamente socialmente accettata, Ban Zhao può parlare con una libertà piena di maliziosa denuncia. Poiché «il criterio che regola i rapporti fra marito e moglie partecipa all’alternanza di yin e yang, è la via che conduce alla comprensione del divino, è il supremo principio di Cielo e Terra, e il fondamento etico dell’ordine morale» (9), allora se manca questa armonia si va contro l’ordine del mondo e il bene dell’umanità.
Questo bene viene dall’educazione, scrive Ban Zhao, ed è profondamente sbagliato pensare che l’educazione e la cultura siano faccenda solo dei maschi. Maschi e femmine devono essere educati nello stesso modo fino ai 15 anni, solo in questo modo si riconosce la «relazione fondamentale che unisce gli uni alle altre» (10). E dentro questa relazione d’armonia che contribuisce all’armonia dell’universo, «il rispetto possiamo dire che non sia altro che mantenere una condotta appropriata in ogni occasione e l’obbedienza possiamo dire non sia altro che essere generose e tolleranti» (11).
Con tutto quello che aveva a disposizione e dentro una tradizione fortemente ingessata Ban Zhao ha fatto il miracolo di dire a chi leggeva: 1) l’educazione è tutto; 2) l’educazione è una, e non distinta per sesso; 3) la forma (delle relazioni) è sostanza; 4) il nostro futuro è l’armonia.
Non sembra poco e non sembra inutile ricordarlo, oggi.
Da Il Regno, 15 ottobre 2018.
Nessun commento