Diario di un avvistatore

Al telefono. Una signora chiede del dottore. Il dottore è Alberto Schön, psicoanalista finissimo. La signora vuole un appuntamento, anche sabato o domenica. Anche di notte. Lo psicoanalista chiede di che cosa si tratti. La signora risponde: «Non è per me, è per il mio bambino». In senso stretto Alberto Schön non tratta bambini, anche se si occupa del perenne bambino che è in ciascuno di noi adulti così spesso cresciuti ma non abbastanza, e così spesso in crisi con quei bambini veri che sono i nostri figli. Ma forse può indicare un collega che tratta i bambini e allora lo psicoanalista chiede: «Quanti anni ha il bambino, suo figlio?». «Ventisette», risponde la signora (Alberto Schön, Vuol dire. Diario di uno psicoanalista, Boringhieri 1977, 80).

La mamma che chiama bambino un figlio di 27 anni era patologica quarant’anni fa, tanto da finire in un libro. Oggi chissà. Abbiamo mamme (e padri) che contestano un cinque perché «Ieri sera abbiamo studiato insieme tutta la sera fino a mezzanotte», o un sette perché «Il compito lo ha visto un mio amico professore universitario e dice che il voto è scandaloso». Genitori mai visti alle riunioni che arrivano all’appuntamento, urgentissimamente richiesto, con lo smartphone acceso, lo appoggiano sulla scrivania, registrano la conversazione, minacciano, il loro io confuso con quello dei figli e a ripensare alle conversazioni non si sa se una cosa l’ha detta il padre o il figlio adolescente.

Ma non parla di scuola, questo libretto folgorante, riletto a un’età molto più adulta e apprezzato in modo più consapevole. Parla di sofferenza e di ascolto. Alberto Schön racconta, con grazia, empatia e molta ironia. Si tratta di brevissime storie di umani incontri. Le storie sono durate molto, in realtà. Quasi sempre. Sappiamo quanto sia lunga un’analisi o una psicoterapia. Ma qui Schön fissa quel momento irripetibile, fondamentale, prodigioso, pieno di promesse, che è il primo incontro.

Quando il paziente arriva, guarda troppo o non guarda il medico, lo studio, la scrivania. Non parla per niente oppure parla di tutto, tranne che della sua sofferenza. Mi vedrà il dottore? Oppure no, esattamente come tutti gli altri non mi hanno visto, in tutta la mia vita? Sarà affettuoso o il suono della sua voce sarà distante come quello di mia madre, mio padre, il mondo intorno?

Incipit: «L’ambulatorio è il luogo dell’avvistamento». Splendida definizione: «Quando ciascuno avvista l’altro, può esservi il primo incontro con le persone» (15). Altrimenti c’è il laboratorio, l’osservazione al microscopio, scrive Schön. Esatto. Anche l’aula è il luogo dell’avvistamento. Ci si vede come persone, ci si riconosce come persone, s’interagisce come persone. Genitori permettendo appunto. Poveri genitori. Ce ne sono tanti nel libro. Le famiglie non stanno male da oggi. Ma qualsiasi luogo è luogo d’avvistamento. L’ascensore, la strada, l’ufficio.

Il libro è pieno di tratti di umana poetica sofferenza che riconosciamo dolorosamente attuale. In ambulatorio arriva un giorno «uno stelo di ragazzina» che lancia una carica di energia «come una nuvola temporalesca», «occhiata voltaica» contro la madre, «una donnetta che le stava dietro». Non tutte le storie sono a lieto fine, come purtroppo si può immaginare. Questa sì, perché dopo anni di lavoro analitico un giorno lo stelo di ragazzina diventata adulta, entra in ambulatorio, lo stesso ambulatorio, senza appuntamento, per presentare a Schön il suo bambino «che la guardava con aria beata» (19).

Possiamo non replicare gli errori. Le esistenze possono essere riparate, questo Schön ci racconta.
E anche se non si riesce sempre, perché «l’evoluzione della sofferenza ha una sua catastrofica, inesorabile malignità» (114), ciascuno ha il diritto d’essere accompagnato nella propria sofferenza.

Schön racconta anche il dolore di non avere saputo aiutare. La tentazione e la consapevolezza di non essere Dio. La tentazione di esserlo stato anche quando le cose sono andate male, ma proprio male, come se la morte per malattia o per suicidio potesse essere ricondotta all’analisi fallita e basta. Ma sempre c’è un sottotesto prezioso e sincero: tutti siamo un poco responsabili di tutto. Non troppo, ma un poco sì e soprattutto sempre, anche nell’incontro occasionale, anche con chi non ci è assegnato per lavoro o per missione istituzionale.

C’è una pagina molto bella su questo, dove l’esercizio professionale dell’ascolto si allarga all’incontro di un momento, un piccolo tratto di strada (letteralmente) fatto lungo l’argine con un ragazzo con ogni evidenza disturbato, in cui  nulla di strettamente professionale accade, solo un fare strada insieme, non sottrarsi all’incontro, «quieta fecondità accogliente di un campo lasciato a maggese… disposto a contenere e favorire il germogliare di semi diversi, il buon frumento e anche le erbe matte»
(115 e 75).

Non è un libro di scuola ma farebbe bene a qualsiasi insegnante, genitore, professionista della cura, essere umano interessato a capire un pezzetto di umanità, senza giudicare, solo capire e aiutare o almeno non sbagliare. Troppo, non sbagliare troppo.

Da Il Regno, 15 novembre 2019.

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Romanzo di un uomo semplice

Ha la pazienza di Giobbe, si dice. Non si dice è un Giobbe, come ad esempio si dice è un Ercole, è un Giuda. Giobbe ha avuto pazienza, l’ha fatta sua ma non è diventato la rappresentazione della pazienza. Infatti la perde in un preciso momento, sia nella versione dell’Antico Testamento, sia nella versione di Joseph Roth (Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, Adelphi, Milano 1978).

In modo del tutto sorprendente, in una pagina in cui nulla lo fa immaginare, il Giobbe di Roth, che si chiama Mendel Singer, perde la pazienza, già all’inizio delle sue sventure, il giorno in cui la moglie Deborah torna a casa dopo aver consultato un rabbi in profumo di santità il quale le ha annunciato che il figlio da poco nato, Menuchim, afflitto da una grave disabilità, «dopo lunghi anni» guarirà (20s).

Gli altri tre figli di Mendel fanno una festa chiassosa e scomposta al ritorno della madre, fanno dondolare violentemente la cesta che fa da culla al fratellino, non l’avevano visto da giorni, una reazione bambina così normale, e invece Mendel Singer perde la pazienza, picchia violentemente i figli con la cintura, «un tumulto sinistro si scatenò sulla sua testa» (22) quasi un presentimento di quel che sarebbe stato, una conoscenza anticipata di tutto il dolore che lo attendeva. O che avrebbe potuto attenderlo.

In quanto uomo, esposto alla povertà, alle malattie, alla guerra, alla morte dei propri cari. Mendel Singer non è un uomo semplice, in realtà. Conduce una vita povera, fa il maestro, insegna la Bibbia ai bambini, nella cucina della sua casa. Non è mai uscito dal villaggio di Zuchnow, nella Volinia russa. Non ha significative prospettive di migliorare la propria vita, se non attraverso il possibile benessere futuro dei propri figli. Ma non è per niente semplice.

Quando le sventure lo raggiungono lui continua ad abitare la relazione con Dio. A occhi aperti, sempre. Fino all’ultima pagina quando accetta di andare in automobile di sabato perché Dio è «così grande che la nostra cattiveria diventa piccolissima» (187). La misericordia non si misura sulle nostre infedeltà.

Quando si legge o rilegge il Giobbe di Roth si «cade nel pozzo». Non ci si può staccare perché racconta di noi, proprio noi oggi.

«Singer sembrava aver poco tempo e tutte le mete urgenti. Certamente la sua vita era una perpetua fatica e alle volte perfino un tormento» (10). La condizione dell’uomo, che attraversa il tempo. Un perpetuo affaccendarsi, nel bene e nel male. La fede non preserva dalla condizione dell’essere creature esposte. Preserva, a volte, dalla disperazione.

E infatti Mendel Singer non è disperato. I figli vengono chiamati a fare il militare, uno va e uno invece si sottrae e parte per l’America. Disertore agli occhi del governo, salvo ai suoi occhi. Ma la pena è grande. Ma ancora Mendel Singer non è disperato. La figlia Mirjam se la intende con i cosacchi, infedeli e nemici.

Mendel Singer decide di partire per l’America, di raggiungere il figlio lontano pur di sottrarre la figlia diletta all’abisso. Non è contento, tutto è ancora tormento, ma non è disperato. Anche il dover lasciare Menuchim in Russia, pur affidato a brava gente, lo tormenta, ma non lo fa disperare.

C’è un momento, quando davvero si sta disperando, dopo che un figlio è morto in guerra, soldato per l’America «paese di Dio» (127), come volevano fargli credere, dopo che la moglie Deborah è morta di dolore e la figlia Mirjam è impazzita, dopo che Mendel Singer ha tentato di «bruciare Dio» senza riuscirci, c’è un momento in cui comprendiamo qualcosa della forza di questo Giobbe antico ed eterno.

Mendel non prega più: «“Io non prego” si diceva Mendel. Ma non pregare gli faceva male» (157). La sua rabbia lo addolorava, Dio reggeva il mondo anche se Mendel era in collera, lui sentiva che il suo odio non toccava Dio, «né più né meno della devozione» (157). La giornata di Mendel disperato comincia con questi pensieri, così diversi da quelli che lo accompagnavano prima. «Prima il suo risveglio era lieve, la lieta attesa della preghiera lo destava e il piacere di rinnovare la consapevole vicinanza a Dio. Dal grato tepore del sonno penetrava all’ancor più segreto, ancor più intimo splendore della preghiera… “Buon giorno, padre” – diceva Mendel Singer – e credeva di sentire la risposta» (157).

Ora pensa che sia stato un inganno tutto, ma la memoria di un’intimità esistita rimane come parte di noi, è stata reale come esperienza e rimane reale come una forza che non ci può essere sottratta, che nemmeno sappiamo di avere, anche se vorremmo poter lasciare la vita che ci ha tradito.

Singer lo dice così bene quando la moglie muore: «Tu stai bene, Deborah. Il Signore ha avuto compassione di te. Tu sei morta e sei sepolta. Di me non ha compassione. Perché io sono morto e vivo ancora» (141).

C’è un momento che viaggia in parallelo con il Giobbe biblico, quando gli amici di Mendel Singer lo vanno a trovare e discutono con lui delle sue sventure. Lui le elenca e di questa lunga dolente rassegna colpisce che quasi tutte le disgrazie che lo hanno colpito sono opera dell’uomo. Un figlio è morto in guerra, l’altro è disperso in guerra, la moglie è morta di dolore, la figlia ha patito la cattiveria di tanti uomini.

Solo il dolore innocente di Menuchim non viene dalle mani degli uomini. E su questo mistero alla fine del libro si stende il miracolo della guarigione. Che si allarga anche alla moglie Deborah che «con occhi ignoti, dell’aldilà, forse viveva il miracolo» (194). È la mano di Dio, vicino anche quando Singer s’allontana, o ci prova, a riconciliarlo con «il proprio piccolo destino» (176).

Da Il Regno, 15 ottobre 2019.

il ragazzo dalle treccine blu

La notizia è che a Napoli la preside dell’Istituto comprensivo Ilaria Alpi- Carlo Levi di Scampia non ha ammesso in classe un ragazzino di 13 anni che si è presentato a scuola con un grappolo di treccine blu elettrico sulla testa e una chiostra di rasatura intorno.

Una furia di reazioni da social. Facile facile il linciaggio: è un minore, il diritto allo studio, il diritto alla libertà di espressione, la scuola non è un lager, la preside è questo e quest’altro. Reato di lesa libertà.

La preside si chiama Rosalba Rotondo, lavora a Scampia da 26 anni, prima come docente e poi come preside. Vuol dire che ha scelto di lavorare a Scampia.

Nel suo curriculum ha progetti di inclusione, contro la dispersione, ha coinvolto la sua scuola in ogni programma di recupero rivolto a ragazzi borderline, è stata coordinatrice per la sua scuola del Progetto Chance, quello dei Maestri di strada, creato dal maestro Marco Rossi Doria e da Carla Melazzini. Decine di ragazzi cui è stata data la possibilità di salvarsi da destini altrimenti segnati.

Di lei colpisce il registro linguistico, nelle interviste: parla insieme da preside, da educatrice, da rappresentante di un’istituzione che sente soprattutto come presenza etica per il quartiere e gli studenti. Conosce il ragazzo e la sua storia e difende il suo diritto a un futuro desiderato.

Del ragazzino sappiamo che viene da una realtà complicata come può capitare, che ha talento per la musica e per la matematica e che proprio per questo è inserito in una masterclass che gli permette di valorizzare le proprie capacità. C’è un mondo scolastico positivo intorno a lui, che ne ha visto e valorizzato le capacità.

È chiaro che in astratto ciascuno può pettinarsi come vuole, anche a scuola. Ma non esiste niente di astratto quando si parla di scuola e di educare. C’entrano il luogo, la storia, la persona. Si può immaginare che la percezione di un cambiamento rispetto a una realtà sociale e culturale che fa fatica a offrire una speranza di futuro, o anche solo molto complessa, passi anche attraverso l’esperienza di un ambiente positivamente diverso, definito, in cui le regole sono non più strette, ma più visibili e che questa visibilità vada preservata come parte del progetto educativo, faciliti un senso di appartenenza positivo.

D’altro canto si tratta di regole discusse con i genitori e condivise, tanto che i capelli blu sono stati notati dai genitori degli altri bambini prima che dalla preside. Un patto che sta funzionando se i genitori stessi lo sentono proprio, e che certo non viene rotto da un incidente. E infatti la preside ha convocato la mamma del ragazzo e insieme hanno concordato un percorso: il ragazzo viene a scuola, non è quindi escluso, fa le prove con l’orchestra, frequenta i corsi di eccellenza di matematica, ma rientrerà in classe quando si sarà riappropriato, insieme alla famiglia, della regola già condivisa e sottoscritta, che disciplina anche i capelli: niente creste, shatush o treccine.

È pensabile che il progetto educativo di quel ragazzo richieda un tipo di contenimento diverso rispetto a quello di un altro. Lo facciamo continuamente a scuola. A volte per non andare a scontri frontali che chiuderebbero il rapporto, abbiamo due, tre, dieci, trenta pesi e trenta misure nell’intervenire in classe. Uno lo richiamiamo, l’altro facciamo finta di non vederlo per un po’ di volte. L’altro lo riprendiamo solo in colloquio riservato e così via. Dipende.

Anche qua, dipende. In ogni ambiente il look manda messaggi. Le scuole d’Italia sono abitate da teste di ogni colore, e non solo dei ragazzi e delle ragazze: anche docenti e presidi portano la libertà del mondo dentro le aule. La scuola è un mondo in cui tutto è segno ma lo è per quell’ambiente e per quella scuola. In un contesto che all’interno di un patto educativo ha accettato un dress code condiviso una inosservanza gridata può essere una sfida. Ad esempio proprio all’autorevolezza della scuola rappresentata dalla preside.

Probabilmente tutto si sarebbe sciolto in qualche giorno di dialogo e di progressivo rientro del ragazzo in classe. Chi ha preferito interessare del caso la politica e il Miur sapeva che ci sarebbe stata una bufera. Adesso è tutto un po’ più complicato. Bisogna evitare di strumentalizzare il fatto e favorire la ricomposizione del rapporto di fiducia fra una scuola e una preside che tutti i giorni tengono il punto di una realtà educativa in cui la forma è anche sostanza di rottura rispetto a contesti esterni difficili. Questo chiaramente vale per tutte le scuole del regno, non solo per quella di Scampia.

Fuori da scuola Lino, 13 anni, all’ingresso della scuola Levi-Alpi di Scampia. Oggi ci tornerà con sua mamma: finché avrà le treccine seguirà i laboratori ma non entrerà in classe.

Da La Repubblica,16 settembre 2019.

Parole di scuola

Il nuovo libro

Un’edizione completamente riveduta e aggiornata

Mariapia Veladiano, dopo più di trent’anni di lavoro, prima come insegnante e poi come preside, la conosce bene, la scuola. Conosce i ragazzi, l’energia che corre tra i banchi, le adolescenze fatte di paura e desiderio, il futuro che promette e insieme minaccia. E conosce bene i professori, il loro lavorare in condizioni sempre più difficili, il fare i conti con una professione che ha perso prestigio e riconoscimento, il sopperire agli impietosi tagli ministeriali con le risorse personali (non solo di spirito). Conosce le parole della scuola ˗ ansia, entusiasmo, vergogna, condivisione, integrazione, esclusione, empatia, identità, equità ˗ e il suono che fanno tra i banchi, dove la vita è più urgente che altrove, dove la vita stessa sta più che altrove. Perché in aula si imparano le parole giuste per capire sé stessi, gli altri, il mondo. E la vita.

Intervista su Il Giornale di Vicenza, 5 settembre 2019