troppo piccoli per cominciare a essere valutati

Le tre emoticon lasciano perplessi, perché stanno sulla stessa linea dei voti e anzi rappresentano una ulteriore semplificazione del processo valutativo che invece di una scala dieci adotta una scala tre e soprattutto perché le faccine sono irrimediabilmente oggi icone associate a prodotti di mercato, e la scuola a questo deve essere attenta. Però il problema sollevato dall’Istituto comprensivo di Modena è importante. Da un lato l’assurdo educativo di dare voti per disciplina a bambini di cinque anni che vanno a scuola da tre mesi, e dall’altro l’opportunità di attivare precocemente processi di autovalutazione. I voti sulle pagelle fanno parte dell’arsenale demagogico più accessibile alla politica, che infatti li ha fatti sparire e riapparire dalla scuola del primo ciclo più e più volte a seconda delle stagioni. Quando la scuola è stata pensata per la sua vocazione inclusiva, si è messo in discussione il voto e si sono cercati strumenti di valutazione formativa, i giudizi, capaci di riferire i risultati e insieme le potenzialità del bambino.

Quando invece, nelle stagioni più restaurative, la scuola è stata offerta all’elettorato come arena meritocratica, i voti sono stati enfatizzati come le dieci tavole della legge. In realtà sono spesso proprio le maestre e i maestri più impegnati e pedagogicamente più avvertiti che manifestano la preoccupazione nei confronti del voto, soprattutto alla scuola primaria dove la valutazione è regolamentata da uno dei decreti attuativi della cosiddetta “buona scuola”. Ma come si fa? Il Trentino nella sua autonomia non dà i voti alla primaria. I bambini ricevono giudizi sintetici per disciplina e poi un giudizio globale. Inoltre nel primo biennio della primaria la valutazione viene data per aree di apprendimento. Il numero è un falso amico se ha la pretesa di raccogliere la valutazione dell’apprendimento in un’età in cui tutto è ancora nuovo e possibile. È ovvio che il voto non dice il valore del bambino ma dovrebbe essere un indicatore per genitori e insegnanti. Di fatto non è mai solo così . I voti arrivano ai bambini eccome.

Riempiono le chat dei genitori.

Creano precocissime ansie famigliari. Le emoticon rappresentano il disagio per una valutazione precoce degli apprendimenti che così come la legge la prevede non va bene.

Da La Repubblica,15 febbraio 2020.

vedere l’amore

Si può scoprire d’amare in modo smisurato una persona solo dopo che questa non c’è più. Oppure si può scoprire l’amore smisurato di questa persona per noi solo dopo che questa non c’è più. Oppure tutte e due le cose. È sempre tremendo non riconoscere l’amore. È struggente. Ma c’è anche chi ama di un amore che non s’impone, capace di sparire trasformandosi in azioni e attenzioni quotidiane così naturali e così minute che scorrono silenziose e invisibili.

Prenditi cura di lei (di Kyung-Sook Shin, Neri Pozza, Vicenza 2011) è la storia di un amore fatto così. È la vita di una madre, che si chiama Park So-nyo. Si è sposata giovanissima con un uomo per lei scelto dai genitori, come usava e usa ancora qua e là nel mondo, in questo caso la Corea del Sud.
Per più di cinquant’anni si è presa cura di tutti. Nella povertà assoluta della campagna coreana della seconda metà del secolo scorso, ha ogni giorno strappato il cibo alla terra.

Aveva «mani che potevano far crescere qualsiasi forma di vita» (124). Sapeva lavorare ogni tipo di prodotto: «Nel ripostiglio teneva bottiglie di vetro di ogni dimensione, piene di succo di prugna o di fragola selvatica… c’erano vasetti colmi fino all’orlo di pesciolini e molluschi fermentati oppure di pasta d’acciughe… se sentiva dire che le cipolle giovavano alla salute, faceva il succo di cipolle, e prima dell’inverno preparava succo di zucca con infuso di liquirizia» (8). Seminava, zappava, allevava pulcini, cucinava, lavava i piatti e le lenzuola, puliva tutto sempre e tutti ritenevano normale che lo facesse semplicemente perché lo faceva e faceva insieme mille altre cose, s’interessava ai figli, li esortava fieramente a studiare, li redarguiva se si lasciavano andare.

Quando poi i figli vanno via, lei telefona loro regolarmente, s’informa minutamente delle loro vite, poiché non sa scrivere detta le lettere in cui dà notizie, rassicura, raccomanda. E poi, regolarmente, lei contadina senza cultura e mezzi, va a Seul carica come all’inverosimile di ogni ben di Dio e fa il giro dei figli, lascia a ciascuno il proprio cibo preferito, a ciascuno quel che ha intuito manchi in quel momento. Per tutti è una benedizione.
Ma non lo sanno.

La madre un giorno scompare perché la porta della metropolitana di Seul si è chiusa dietro suo marito ma davanti a lei, e improvvisamente appare tutta la sua grandezza. Il vuoto che lascia è talmente grande che ciascuno si chiede come ancora si possa vivere senza di lei e soprattutto come si sia potuto vivere senza la consapevolezza della sua importanza. Della sua presenza, là dove stava, colonna assoluta del mondo. «Prima che sparisse, passavi le giornate senza pensare a lei» (114). Ora le giornate sono piene solo di lei.

Ogni capitolo è scritto da un membro della famiglia, un diverso punto di lettura di Kyung-Sook Shin. Ci sono pagine lancinanti, come quella in cui il figlio maggiore adorato ricorda che la presenza di sua madre «lo aveva spinto a rafforzare la sua determinazione di essere umano» (85). È tutto ciò che una buona madre può desiderare.

Oppure quella in cui la figlia ricorda come la mitissima madre diventa una furia e litiga con il padre, urla e lancia un tavolino in cortile per convincerlo della necessità di mandare la figlia a scuola. Infine vende il suo unico anello per poter pagare la retta della scuola. La figlia studia e diventa scrittrice. La madre è fiera dei suoi successi e si fa leggere i libri appena vengono pubblicati. Non lo fa di nascosto, ma la figlia non lo sa perché è troppo distratta, troppo lontana e impegnata. Deve tutto a sua madre eppure deve chiedersi quand’è stata l’ultima volta che le ha raccontato un episodio della propria vita.

Le ricerche sono dolorose. Ciascuno dei figli, e il padre, girano la città, mettono volantini in ogni luogo, tornano ostinatamente al punto in cui la madre è scomparsa. Seguono ogni indizio, ogni segnalazione. Ce ne sono alcune all’inizio, che concordano fra loro. Una donna come quella descritta è stata vista in diversi quartieri della città. Tutti quartieri in cui il figlio maggiore molti anni prima aveva di volta in volta abitato. Come se la madre ricordasse e li ripercorresse. Tutto torna. In effetti la madre non stava bene negli ultimi tempi. Lo avevano visto ma nessuno si era fermato a capire. Torna tutto tranne che la madre nelle segnalazioni non porta i suoi sandali, ma porta dei sandali azzurri di plastica, che aveva in effetti, e che in effetti la ferivano e le facevano male, ma in altri tempi, in un passato lontano, quasi lontanissimo. Attraversa in sandali azzurri i luoghi della loro vita, quasi un angelo custode che abita l’eternità e il mondo nello stesso momento.

Chi è la donna che tanti hanno visto e addirittura soccorso? Chi era la madre di cui alla fine era stato anche dimenticato silenziosamente il compleanno? Da parte di tutti. Aveva vissuto la vita che voleva?
È una domanda sensata questa? Il finale è sorpresa
e incanto.

È un libro d’amore nascosto e potente, perché l’amore anche se non si rivela e se noi siamo distratti, tremendamente distratti, ci protegge. Alla fine ci si guarda intorno con occhi che finalmente vedono queste donne senza tempo capaci d’amore assoluto e segreto.

Da Il Regno, 15 febbraio 2020.

Una vita come le altre

Non esiste un punto di vista fuori di sé dal quale scrivere, anche quando non si scrive di sé. La letteratura è questa operazione d’attraversare la vita di tutti con le emozioni della propria vita e restituirle ai personaggi dei romanzi nella forma di una universalità che noi lettori possiamo riconoscere. Perciò è difficilissimo che l’autobiografia diventi letteratura. Non si tratta d’aver avuto una vita più o meno interessante. Le vite nascoste hanno gli stessi segreti, gli stessi dolori, gli stessi carsismi emotivi di quelle più scintillanti, piene di fatti e di notorietà, e forse hanno anche più eroismi.

Alan Bennett scrive Una vita come le altre (Adelphi, Milano 2010) quando ha 75 anni. È la storia dei suoi genitori e del suo rapporto, soprattutto adulto, con loro. Il padre è morto 35 anni prima e la madre 14. Un tempo lunghissimo, ma potrebbe non essere una distanza sufficiente. Il dolore non conosce il nostro tempo dal passo preciso che si stacca regolare da un punto, una data che s’allontana nel ricordo e nell’emozione. Il dolore può abitare immutabilmente gagliardo e pieno della sua energia iniziale ogni giorno della nostra vita. Oppure può trasformarsi. In arte, in consapevolezza, in umana reciproca comprensione.

Qui l’operazione è compiuta. Abbastanza compiuta, perché si tratta di affetti, come dire, fondanti la nostra esistenza e non finiscono di trasformarci, ogni giorno.

«C’è un bosco, il canale, il fiume, e sopra il fiume la ferrovia e la strada. È la prima campagna vera e propria che si incontra a nord di Leeds, e tornando a casa in treno ci passo spesso. Però adesso guardo» (11). Però adesso guardo. Si può trascorrere l’intera esistenza senza guardare. Quanti non guardano né la propria vita né gli altri né il mondo. Sguardo fisso a un obiettivo, di volta in volta diverso, e tutto il resto è un’ombra in fondo all’occhio, piccolo restringimento del campo visivo, mai messo a fuoco.

Bennett comincia a mettere a fuoco la vita dei suoi genitori a partire da una rivelazione. Sua madre non sta bene, sembra una forma di depressione particolarmente grave, lui già adulto accompagna il padre al distretto sanitario per la scheda di anamnesi e lì scopre un segreto di famiglia alquanto ben protetto: il nonno materno è morto suicida e non d’infarto come si era sempre raccontato. Un non detto potente come una deflagrazione aveva attraversato la loro famiglia. Un sisma sotterraneo, quanta fatica avevano fatto tutti a stare in piedi? E chi non era riuscito a stare in piedi?

Tutto può essere riletto alla luce inquietante di questa fragilità costitutiva. La fragilità è costitutiva di ogni esistenza ma, appunto, si può far finta di non vedere, e questo ha un prezzo altissimo naturalmente, in termini di fatica e di negazione, ma c’è chi vive così. E invece a volte la fragilità s’impone nella forma di un suicidio, una dichiarazione in fronte al mondo: la vita è troppo per me, troppo dura, troppo sola.

Il resto è il racconto, struggente, della sua famiglia fragile e quindi normale. La paura di apparire e la determinazione assoluta a passare inosservati e, per contro, la violenta e anche ridicola necessità d’apparire delle zie, e poi la malattia della madre, i ricoveri ricorrenti. Una quantità di terribili verità, dette da chi ha accettato di vedere.

La madre viene accompagnata in ospedale una certa mattina. È una donna malata ma ben curata, la piega fatta, il vestito in ordine. Il pomeriggio dello stesso giorno la trovano trasformata in una «povera donna avvilita, rattrappita, tutta arruffata e aggrappata ai cuscini… Seguendo il regolamento e le sue crudeltà, dopo l’accettazione le avevano fatto il bagno e lavato i capelli senza pettinarglieli e farle la piega, quindi ora le stavano tutti dritti come un’aureola delirante. Eccola arruolata tra le fila dei dementi… Era pazza perché aveva l’aspetto di una pazza» (23). Una pagina che vale il libro.

Poi ci sono le osservazioni folgoranti del Bennett più noto: le zie «vestali della trasgressione» che «senza l’intralcio dei figli, senza marito davanti al quale dover chinare il capo, sono o si credono spiriti più liberi rispetto alle sorelle sposate» (87). Oppure la madre, infine stritolata da una demenza importante, che «arriva a superare i novant’anni, forse perché è libera dal peso dei ricordi» (135).

Vogliamo interrogarci: quante demenze sono liberazione da ricordi insopportabili? Ma c’è anche la dolentissima denuncia di un mondo così malato da attorcigliare il cuore. Quando scompare l’anziana zia Kathleen e la polizia la comincia a cercare ventiquattro ore dopo e senza grande impegno: «Una vita non ha sempre la stessa importanza sociale. Il valore massimo lo attribuiamo ai bambini… La zia Kathleen era al minimo del suo valore sociale: aveva settantatré anni, era demente, socialmente insignificante, economicamente inutile» (132). Ce lo annotiamo come promemoria per questo anno appena iniziato. Vogliamo davvero che sia così?

Chi conosce l’Alan Bennett temibile, corrosivo, che rivela la mediocrità di tante vite rese anonime non da ragioni di prestigio sociale o culturale, ma dall’essersi accomodate in una quotidianità irriflessiva e che accetta le regole di un perbenismo senza anima, qui trova un Bennett infinitamente più au même niveau, pensoso e partecipe, acuto, ironico a volte, tremendo nel riconoscere come sia disumano troppo di quello che ormai accettiamo come normale, soprattutto nella malattia, nella vecchiaia, nella condizione di fragilità. In questo, il suo sguardo allenato a vedere il mondo dalla giusta distanza dello scrittore, è un regalo che ci permette di uscire da tanta nostra cecità.

Da Il Regno, 15 gennaio 2020.

La ricerca e l’attesa del pastore

Riletto la prima domenica d’Avvento, quando i racconti del Natale si richiamano l’un l’altro e si va a ritrovare le immagini belle che hanno costruito la memoria dell’attesa. Il ricordo di questo romanzo portava con sé la neve, tantissima neve. E un pastore con un evangelico smisurato amore per le pecore che non sono rientrate all’ovile prima dell’inverno.

Se intanto qualcuno sta pensando che il pastore sia un predicatore e le pecore siano scribi, farisei, pubblicani o gabellieri passati o presenti, è esattamente quel che può capitare di pensare per un bel po’ di pagine quando si comincia a leggere Il pastore d’Islanda (Gunnar Gunnarsson, Iperborea, Milano 2016). È talmente estremo e lontano il mondo raccontato, un presepe d’Islanda bianco e gelato, che all’inizio lo si volta in metafora. Anche se in senso stretto nulla di ingannevole viene detto.

C’è un pastore che si chiama Benedikt. Ogni anno la prima domenica d’Avvento si mette in viaggio verso il pascolo comune che si estende fra le lingue del ghiacciaio. Stremba, ovvero «il duro», i pastori chiamano quella terra estrema. Benedikt si carica di provviste e scarpe di cuoio nuove, un fornelletto, alcol e petrolio e va tra le montagne ormai gelate, i pascoli coperti di ghiaccio, a cercare le pecore sperdute, quelle che erano sfuggite «ai tre raduni regolari dell’autunno» (7).

Con lui il cane Leó e il montone Roccia. La «santa Trinità». Così le persone chiamano fra loro il trio, e non c’è un’oncia di blasfemo, quello che i tre vanno a fare è davvero qualcosa di divino. Benedikt ha 54 anni, è un «uomo anziano», un «vecchio», e sono 27 anni che fa questo viaggio. Nelle fattorie costruite ai piedi delle montagne, il limite oltre il quale non si va quando il gelo arriva, ci sono contadini amici che rispettano il sacro rito annuale e lo attendono con affetto, per una parola, un caffè, un po’ di paglia per Roccia e un boccone di carne per Leó.

Il tempo butta malissimo e c’è chi lo vorrebbe fermare. Non sa capire perché Benedikt si ostini a rischiare la morte per delle pecore che non sono nemmeno le sue. Perché Benedikt è mezzo servo e mezzo contadino, ha pochissime pecore e sono tutte al caldo nella loro stalla. Da 27 anni va a cercare le altre semplicemente perché ogni essere vivente ha il diritto d’avere qualcuno che prova a salvarlo. Questo per quel che riguarda le pecore è gran bene, evidentemente. È il bene.

E per Benedikt? Il tempo impiegato, il rischio. Perché lo fa? C’è un momento, proprio all’inizio del viaggio, quando le nuvole promettono bufera e forse deve ritardare di un giorno la partenza dall’ultima fattoria che l’ha ospitato, e ogni giorno in più è pericolo in più, c’è un momento in cui arriva un contadino inatteso, in fattoria, uno che ha ancora un po’ di gregge in quota e con ogni evidenza intende approfittare dell’esperienza di Benedikt per radunarlo e portarlo giù e per questo arriva a chiedere il suo aiuto, ritardando ancora la partenza di Benedikt per i pascoli più lontani, quelli dove le pecore si perdono davvero.

I contadini amici di Benedikt tentano di convincerlo a rifiutare l’aiuto: «“Se li aiuti a radunare il loro gregge sprecherai almeno due giorni”. “Oh, sprecare…”, mormorò Benedikt quasi tra sé. Avrebbe preferito non doversi esprimere su un argomento tanto spinoso. Perché se viene un uomo che deve radunare il suo gregge, e lui e Leó e Roccia si trovano a portata di mano, e forse sono indispensabili, che altro si può fare se non mettersi a sua disposizione» (30).

Ecco. Cosa altro è la vita, se non servire la vita? E così, grazie a questo servire, poter anche vivere. Esattamente, quale vita è davvero sprecata? C’è un preservarsi nelle buone intenzioni e nelle buone azioni che non vede la vita, il suo chiamare adesso.

L’attesa dell’Avvento non ha niente a che fare con l’indolenza o la passività. È questo agire senza pretese, che va incontro alla Grazia che a sua volta arriva senza avanzare pretese, dono che cambia le cose per sempre. Per le pecore salvate e per chi le ha salvate, che così ha potuto restare uomo, naturalmente responsabile verso la vita.

Intorno alla santa Trinità c’è una natura da primo giorno della creazione, un attimo dopo la suprema Parola creatrice. Sia la luce. Quanta luce, tutta neve, tutte nuvole bianche, tutto vento che soffia. E poi tutto buio la notte, niente luci delle case, la luna chissadove. Ma la natura contiene la promessa: «Come nata da tutto quel bianco… c’era in quella domenica nel distretto di montagna una solennità che stringeva il cuore» (12).

In effetti non riuscirà a tornare per Natale come sempre faceva Benedikt: «Le difficoltà superate, le pecore sane e salve nella stalla, e lui seduto nella chiesetta, con l’animo colmo di gratitudine e solennità» (51). Tarderà e ci sarà chi lo andrà a cercare, e questa sarà l’occasione per capire che addirittura un erede capace di continuare la sua ricerca dell’Avvento si sta preparando.

«Quando la festa si avvicina, gli uomini si preparano a celebrarla, ognuno a modo suo» (7). Essere in viaggio per non lasciare indietro nessuno, nemmeno qualche pecora che non è nemmeno nostra, è un gran bel modo di prepararsi a celebrare la festa.

Da Il Regno, 15 dicembre 2019.