piccoli maestri (d’umanità)

Si può non saperlo proprio fare, di essere eroi. Si può non avere nemmeno il coraggio, prima, si può appartenere alla classe sociale che ha dovuto conquistare con affanno il diritto di esistere o a quella che da generazioni nasce accomodata nei suoi privilegi. Si può essere iperconsapevoli, analizzare i dati, i fatti, la storia e le conseguenze, oppure semplicemente si può essere intessuti di bisogno di giustizia, si sa qual è la parte giusta per semplicità, lasciando arrivare la compassione, lo sdegno, la fratellanza. Si può fare la scelta giusta senza enfasi né prima né dopo.

Luigi Meneghello scrive I piccoli maestri (Rizzoli, Milano 2015) da molte distanze. Una distanza temporale di vent’anni rispetto ai fatti raccontati. Una distanza spaziale, si è trasferito a Reading dove è a capo del Dipartimento di studi italiani. Una distanza anche culturale e linguistica. Ha cominciato a scrivere I piccoli maestri in inglese, poi ha sospeso, intanto il Neorealismo ha raccontato l’epica della Resistenza italiana, con la retorica quasi obbligata dal tremendo ventennio di attesa e impegno.

Poi, dopo molti anni, Meneghello trova la voce per quel piccolo gruppo di amici vicentini, discepoli di Antonio Giuriolo, «oppositore totale al fascismo», che è professore «ma non fa scuola perché non ha voluto prendere la tessera». Da lui «s’impara quello che si dovrebbe imparare a scuola» (31s). Antonio Giuriolo fu il fondatore a Vicenza del Partito d’azione e poi quando entrò in una brigata di Giustizia e libertà che agiva sulle montagne bellunesi e vicentine, i suoi più giovani amici e discepoli lo seguirono.

Qui comincia a raccontare Meneghello. Loro vanno sulle montagne perché sono fieramente antifascisti e intendono cambiare l’Italia. Ne parlano, se lo dicono, nelle discussioni. Poi in montagna avviene il passaggio dalle parole alle marce, alla fame, alla pioggia, al freddo, alla paura, al pericolo e alla morte, e allora la geometria delle argomentazioni ondeggia, ma non la certezza della scelta. È che il mondo partigiano che incontrano è davvero così socialmente e culturalmente diverso da quello di provenienza che a volte sembra di affacciarsi sulla vertigine del caso.

Ad Asiago gli amici vicentini vengono aggregati al «primo vero reparto di montagna». Lo comanda il Castagna: «Era di quegli uomini positivi, sodi, pratici di cui si sentiva istintivamente il bisogno» (70). Del gruppo fa parte anche il Finco «l’uomo più temibile dell’Altopiano» (72). Meneghello gli parla, vuole capire perché questo partigiano non è forte nel senso che ci si aspetta, è «sul magro, col viso di cera», dichiara subito di essere delicato, è nel reparto da «grande Indipendente», speciale in tutto, «per armamento, vitto, diritti, doveri» (72). Meneghello vuol capire perché è su, in montagna, e cosa farà giù, dopo, se tornerà. Ma non c’è una teoria. La sera nella grotta davanti un bel fuoco di legna i partigiani cantano: «Sono passati gli anni / sono passati i mesi / non passeranno i giorni / e sbarcarà i inglesi / La nostra patria è il mondo intèr / la nostra fede la libertà / solo pensiero – salvar l’umanità» (74).

Fede nell’umanità. Castagna «non aveva teorie preconcette» sulla guerra. «L’idea era di spostare la gioventù dell’Altipiano dai piccoli centri abitati ai greppi deserti; la guerra si sarebbe fatta secondo il bisogno, senza andare a cercarsi rogne speciali». Meneghello è affascinato: «Si sentiva che qui le cose erano venute prima delle idee e la faccenda sembrava riposante» (75). Non è così semplice evidentemente, ma invece alla fine è anche semplice stare dalla parte giusta quando l’apocalisse, una «crisi quasi metafisica» (105) si manifesta.

Quando il gruppo incontra Antonio Giuriolo, un’altra forma di semplicità si manifesta, quella del discepolato: «Antonio non era solo un uomo autorevole, dieci anni più vecchio di noi: era un anello della catena apostolica, quasi un uomo santo. Senza di lui non avevamo senso, eravamo solo un gruppo di studenti alla macchia, scrupolosi e malcontenti; con lui diventavamo un’altra cosa (…) Antonio era un italiano, in un senso in cui nessun altro nostro conoscente lo era; stando vicino a lui ci sentivamo entrare anche noi in questa tradizione» (85).

Diventare italiani (e umani) per contatto, quasi, per esposizione. Qualcosa di potentissimo, da ricordarci l’un l’altro nei momenti di crisi, quando il rischio di scivolare nell’esclusiva cura del nostro piccolo o grande bene minacciato da una qualche crisi, per grave che sia, si presenta con la maschera chiassosa della demagogia.

Per il «popolo», come chiama Meneghello i partigiani delle montagne, e per i giovani intellettuali di città si tratta di non perdere il punto della nostra umanità. Ciascuno nel suo modo. Accettando la natura spuria delle intenzioni, l’opacità delle scelte, la progressiva correzione degli effetti.

«Se non avevamo un nostro fronte interno, avevamo però qualcosa di meglio: l’alleanza clandestina ma naturale di un gran numero di persone. I professionisti veri e propri erano indubbiamente pochi; ma il margine dell’adesione e della compromissione degli altri era enorme». Per lo più era gente che non si sarebbe mai sognata di fare la Resistenza per conto suo, ma per i ragazzi che la facevano erano disposti a molte cose (cf. 210), a spartire il niente che avevano, a rischiare rappresaglie e deportazione. Essere nel mondo o tirarsene fuori, l’alternativa del tempo di calamità.
Del nostro tempo.

Da Il Regno, 15 maggio 2020.

Alla fine è la parola

Questi sono giorni impensati e reclusi e, per contrasto con il confine dei muri che ci contengono, vengono in mente tutte le libertà e tutti i sogni che non avevamo il tempo di sognare quando le nostre notti erano brevissime fra il lavoro fuori, il lavoro di casa, un viaggio e ancora il lavoro il giorno dopo e poi ancora, e dentro tutte le stanze, dove siamo circoscritti come è giusto, ci arrivano le immagini portate dalla Rete, di viaggi fatti da chissàchi, in posti che davvero non sappiamo se potremo mai più vedere, dopo, un qualche dopo, e ci arrivano anche immagini da libri letti in un altro mondo, poesie, dipinti, racconti.

L’immagine dei camion militari che trasferiscono i morti da coronavirus, lenti e ordinati come le processionarie nelle nostre montagne, e poi le bare, allineate, ordinate per numero e provenienza, nelle chiese, nei capannoni, addirittura nelle residenze per anziani, depositi impensati anche questi, hanno richiamato tremende emozioni sorelle, che si pensavano lontane nel tempo. Un lampo, una pagina letta chissà quando e chissà da quale libro. Ingiuria degli anni che passano. Scaffale dopo scaffale si va in cerca.

Finché eccola. Una riflessione della poetessa Hilde Domin, contenuta in una lettera all’amica e a sua volta poetessa Nelly Sachs, premio Nobel per la letteratura nel 1966, che si trova in apertura della raccolta Alla fine è la parola / Am Ende ist das Wort (Del Vecchio editore, Bracciano [RM] 2013): «Alla fine della guerra  ho visto per la prima volta delle immagini dei campi di concentramento (…) La cosa più tremenda per me sono stati i mucchi di cadaveri: tutti quei corpi nudi inermi, come un deposito di bambole slogate impilate l’una sull’altra» (25).

La parola è deposito. Vuol dire che sono tanti. Vuol dire che possono essere lasciati lì e ben chiusi, anonimi, anche se hanno targhetta e numero. Vuol dire che non trovano casa e riposo e si perdono nel mucchio. Vuol dire che si perdono. Perdere la vita è nel conto o dovrebbe esserlo, per noi, meglio tardi e ricchi di anni. Perdere ogni traccia di sé è intollerabile, per noi stessi e per chi ci conosce e ama.

Hilde Domin è nome d’arte, il suo cognome è Löwenstein. È ebrea come Nelly Sachs. È nata a Colonia nel 1909 e sarebbe finita nel mucchio di bambole disarticolate anche lei se non fosse partita a 24 anni, scappata dalla persecuzione, una vita in fuga, sempre via e ancora via, invece noi ci salviamo forse se restiamo, proprio se non partiamo.

Ma questo è ciò che infine si deve imparare: l’arte di essere là dove ci si trova. E non è chiaro chi ce la può insegnare. Hilde Domin una strada la indica, la poesia: «Il poeta contribuisce alla continuazione della vita» (27). Dare ai morti la voce per poter vivere e non restare per sempre dentro il deposito, ma vivere pur conservandone la memoria nelle parole.

«Si deve saper andare via / e tuttavia essere come un albero: / come se le radici rimanessero nel terreno / Come se il paesaggio si muovesse e noi restassimo fermi. / Si deve trattenere il fiato / finché si calma il vento / e l’aria estranea / inizia a girarci intorno, / finché il gioco di luci e ombre, / di verde e di blu, / crea gli antichi disegni, / e siamo a casa, / ovunque essa sia, / e possiamo sederci e appoggiarci / come se fossimo alla tomba / di nostra madre» (Paesaggio in movimento, 51).

Ogni poesia è come un racconto. Hilde Domin è esperta di rinascite, questo è toccato alla sua generazione, e loro non l’hanno cercato, durissimo imparare. Nessuna retorica, solo la perfezione della parola precisa: «Non ci sarà nessuno dopo di noi / che potrà raccontare, / nessuno, che prenderà in mano / e porterà a termine / ciò che noi lasciamo incompiuto (…) Dobbiamo indossare scarpe sottili / o camminare scalzi. / Ciò che tocchiamo / toccarlo con dita leggere / con polpastrelli vigili. / Nulla con indifferenza. / Ogni volta è l’ultima / o potrebbe esserlo (…) Non vogliamo lasciare nulla / incompiuto / o lasciare ai fantasmi / bicchieri mezzi vuoti sul tavolo» (Non ci sarà nessuno dopo di noi, 205).

Sullo sfondo della Domin c’è la Shoah. In attesa del nome con cui saranno chiamati questi giorni che viviamo, si può ascoltare il suono che ci portano i versi, per essere pronti a trovare quelli giusti per continuare, sapendo che non c’è una  regola da capire: «Colui a cui tocca / viene sollevato / da un’enorme gru / e posato / dove niente ha più valore, / dove nessuna strada / porta dall’ieri al domani (…) Poi viene spogliato / e messo in mostra al mercato dei rifiuti /. Mani ostili / toccano i fianchi» (A chi tocca, 133).

Eppure sempre c’è un regalo da accogliere, quando arriva, anche se sempre porta la memoria del dolore: «Nuvole di tenerezza / mi catturano, / e la felicità conficca / il suo piccolo dente / nel mio cuore» (Regali del vento, 131). 

Intanto c’è questa attesa fatta di un andare prudente, col pensiero, solo col pensiero per ora, e non è facile per nessuno: «Camminiamo / ognuno per sé / per la stretta strada / sopra le teste dei morti / – quasi senza paura – /a ritmo con il nostro cuore, / come se fossimo protetti / finché l’amore / non perde un battito» (Equilibrio, 65).

Da Il Regno, 15 aprile 2020.

100 Rodari da ricordare

C’era una volta Gianni Rodari. C’era e c’è. Quest’anno si ricordano i cento anni dalla nascita e ri-leggerlo è una gioia. E si può anche in-seguirlo lungo su e giù per l’Italia quanto è lunga e anche sporgendosi dai confini. Sul portale www.100giannirodari.com l’editrice EL (che comprende i marchi Edizioni EL, Einaudi Ragazzi ed Emme Edizioni) raccoglie tutti gli eventi che quest’anno lo ricordano: teatro, reading, convegni, spettacoli d’ogni tipo, da Vicosoprano di Bregaglia – che pare un nome uscito da una delle sue storie e invece è un paese della Svizzera, Cantone dei Grigioni – a Ostia, a Bitonto, a Milano, a Sezze Scalo (Latina).

Rileggere cosa? Ciascuno di noi ha il libro di Rodari grazie al quale lo ha incontrato e non sempre sapremmo dire il perché ci ha stregato. Una rilettura incantevole, irresistibile, pagina dopo pagina, viene da una raccolta di cento suoi testi per bambini: Cento storie e filastrocche (Edizioni EL, Trieste 2019). Ciascuna storia è accompagnata da un’illustrazione d’autore, cento coloratissimi stili diversi per raccontare l’incanto della fantasia, cento meraviglie per gli occhi.

Molte parole sono davvero solo risata e gioco, e ridere non è proprio poco. Ma altrettante sono gioco serissimo e pensieroso. E siccome i poeti sono spesso profeti, si resta incantati di trovare già scritti i nostri giorni scriteriati.

Gli «staccapanni» del paese con la esse davanti sono presi dai nostri tempi opulenti e meschini in cui davvero li abbiamo inventati per potere un poco dormire, di notte, fra i cuscini, e un poco far dormire i nostri bambini.

Invece gli «scannoni» che disfano la guerra non li abbiamo ancora costruiti. Chissà che non sia un problema di testa, quella che manca al povero «ane» di Firenze, dove la «c» se la mangia la gente: «Ma lui non si lamenta, / è un caro cucciolone, / scodinzola e fa festa / a tutte le persone». E del resto – conclude la filastrocca – «Vivere senza testa / non è il peggio dei guai: / tanta gente ce l’ha / e non l’adopera mai». La testa è un tormento ripetuto nelle rime di Rodari, che in Teste vuote le vede «ruzzolare per la strada / senza bisogno di ruote. / Erano vuote del tutto, /salvo pochi pensierini / che ci ballavano dentro / come dei sassolini».

E del resto accanto all’attività di scrittura per bambini, c’è quella di articolista. Per la rilettura di questo aspetto, va bene un’altra raccolta: Il cane di Magonza, (Einaudi, Milano 2017). Curato da Carmine De Luca, il libro propone un’antologia di scritti scelti fra quelli pubblicati da Rodari soprattutto sul quotidiano Paese sera, selezionati per la loro letterarietà oltre che per gli argomenti.

Molti sono scritti che avviano riflessioni che più tardi avrebbero trovato una sistemazione più strutturata, come i due articoli «Un manuale per inventare favole» dove Rodari insegue le vicende
di un fantomatico manoscritto di un fantomatico prof. Otto Schlegel-Kamnitzer, consegnato a Rodari da un altrettanto fantomatico giovane giapponese che l’ha tradotto dal testo (giapponese) in suo possesso.

È un lavoro che vuole gettare le basi di una «Fantastica», ovvero l’equivalente di una
«Logica» ma riferita all’arte d’inventare e non di ragionare.

È l’idea poi sviluppata in quel magico libro che ha incantato il mondo degli scrittori e dei lettori che è La grammatica della fantasia. E lo scritto «Il cane di Magonza» che dà il titolo al libro è già un esercizio di quest’arte, esercitata a partire delle parole liberamente frullate così che si possa conoscere il mondo e navigarlo con sapienza. Fin da bambini.

Il libro è uno scrigno che attraverso gli occhi dell’autore perennemente attenti a cogliere il lato meno scontato del mondo, ci abitua a vedere le storture della società in cui viviamo e in nessun caso a voltare la testa. Una parola a parte per un testo non molto conosciuto e qui riportato. Si tratta di un poemetto dal titolo Compagni fratelli Cervi, scritto per gli ottant’anni di papà Alcide Cervi e letto a Reggio Emilia l’8 maggio del 1955. È poesia civile dura, epica e insieme poetica.

Bisogna ricordare il sacrificio terribile dei sette fratelli per far sì che i ragazzi si innamorino della giustizia e della libertà. «Sette fratelli come sette olmi / alti e robusti come una piantata. / I poeti non sanno i loro nomi, / si sono chiusi a doppia mandata. (…) I libri di scuola si tappano le orecchie. / Quei sette nomi scritti con il fuoco / brucerebbero le paginette / dove dormono imbalsamate / le vecchie favolette / approvate dal ministero».

Poi li scrive i nomi, come sette olmi, in polemica con il bon ton d’aula della scuola italiana, che vuol esistere senza ricordare. È il compito del poeta. Anche di chi dice di scrivere per i bambini.

E invece.

Per finire, in giorni in cui l’umore fa fatica a guarire, ancora parole che fanno splendere il sole: «Ho visto una formica / in un giorno freddo e triste / donare alla cicala / metà delle sue provviste. / Tutto cambia: le nuvole, / le favole, le persone… / La formica si fa generosa… / È una rivoluzione».

Da Il Regno, 15 marzo 2020.

Ma la scuola non si ferma

Non è una decisione che si può prendere facilmente quella di chiudere le scuole. Anche solo un giorno.

Quando i giornali pubblicano titoli del tipo: “Sciopero dei docenti. Scuole chiuse”, non è mai vero. I presidi sono tenuti a mettere in atto tutte le misure organizzative possibili per assicurare la sorveglianza degli studenti senza chiudere le scuole. Solo quando l’adesione di docenti o collaboratori è così massiccia che in nessun modo si può assicurare l’incolumità dei ragazzi dentro le aule, è possibile chiudere, ma solo i plessi scoperti. Il preside deve fare una determina motivata, in cui indica come e perché è costretto a sospendere le lezioni. Le scuole chiuse rappresentano quindi nella realtà e nel simbolo l’eccezionalità del momento, anche perché in questi giorni non solo sono sospese le lezioni, ma sono chiuse anche le segreterie. A memoria di chi sta nella scuola, non è mai capitato, nemmeno con le nevicate eccezionali del 1985.

Finora si è trattato di due (primo ciclo) o tre giorni (superiori e università). Praticamente un ponte con le vacanze di Carnevale. Ora per Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia si tratta di una settimana intera. È un periodo significativo che ha un impatto importante sul piano della riorganizzazione familiare e, per la novità, anche sull’organizzazione della didattica e della scuola stessa. Una settimana o due non rappresentano una tragedia per i programmi purché la scuola riesca a mantenere il legame con il processo di apprendimento. “Lasciar cadere” questi giorni vuol dire perdere l’opportunità di verificare quanto le scuole si sanno attrezzare per una didattica che possa dare continuità all’apprendimento, anche a distanza, con modalità e strumenti che ci sono già e che sono conosciuti e apprezzati dagli studenti. Si può fare. Per situazioni particolari come la malattia prolungata di uno studente, più o meno tutte le scuole sono in grado di farlo, anche perché si ingaggiano i docenti su base volontaria e di solito si prestano i tecnologicamente più attrezzati. Un tempo non era così, adesso invece sì.

Ora però si tratta di organizzare una didattica a distanza strutturata, coinvolgendo in modo sistematico e ordinario tutti i docenti e gli studenti. Le scuole che hanno già messo a regime modalità di didattica a distanza stanno lavorando senza difficoltà. Sembrano meglio attrezzate le università.

Gli altri livelli di scuola si muovono a spot. Il Miur ha organizzato un gruppo di supporto per le scuole che vogliono sperimentarla, in corsa, vista l’emergenza, invitando a collaborare “i produttori di hardware e software che desiderano rendere disponibili a titolo gratuito i propri prodotti”. In realtà è qualcosa che non si può improvvisare e che non potrà essere senza costi, come chiede il ministero, ma la strada sarà questa e i giorni particolari che stiamo vivendo ci dicono che si deve percorrerla con saggezza.

Da La Repubblica, 1 marzo 2020.