Incontriamo zia Camilla sulla piazza di un piccolo paese non lontano dal lago di Garda e dal corso dell’Adige. Per le borsette e i cappellini tutti la chiamano la Regina, e in effetti nel portamento assomiglia alla regina d’Inghilterra, con qualche stranezza in più. Qualcuno l’ha fatta sedere sulle pietre della fontana dove la raggiunge la nipote Andreina, e un pezzo di realtà di zia Camilla si ricompone.
È l’esordio, così lo chiamano, di una malattia che si è manifestata a poco a poco, a giorni alterni, finché il mondo fuori l’ha vista e da quel momento è esistita per tutti, anche per lei. Zia Camilla è sempre vissuta in campagna tra fiori, galline e gli amati orologi, nella grande casa dove la nipote è cresciuta con lei e con zio Guidangelo.
Ora Andreina, che è moglie e madre mentre la zia di figli non ne ha avuti, l’assiste affettuosamente e intanto racconta in prima persona il presente e il passato delle loro vite.
Una narrazione viva ed energica, come zia Camilla è sempre stata e continua a essere. Intorno e insieme a loro, parenti, amiche, altre zie, donne venute da lontano che hanno un dono unico nel prendersi cura, tutte insieme per fronteggiare questo ospite ineludibile, il «signor Alzheimer», senza perdere mai l’allegria.
Perché zia Camilla riesce a regalare a tutte loro la vita come dovrebbe essere, giorni felici, fatti di quel tempo presente che ormai nessuno ha più, e per questo ricchi di senso.
Le sere in cui arrivo tardi, entro nel lettone grande di zia Camilla e lei subito mi cerca la mano. “Sono Andreina, zia Camilla. Sono qua”, dico. “Che bello. Ah che bello che sei qua”, risponde. “Come stai zia Camilla?”. “Adesso che sei qui, il mondo comincia per me”.
La memoria malata pesca i ricordi
di Ermanno Paccagnini
A tutta prima, questo Adesso che sei qui di Mariapia Veladiano lo diresti un romanzo «dentro l’Alzheimer». E si va poi sempre più configurando come romanzo nel quale l’Alzheimer riveste un ruolo da coprotagonista insieme alla persona che lo sta vivendo e a chi ha deciso di assisterla.
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Ma la realtà è che Adesso che sei qui è il romanzo di una vita «vissuta nonostante l’Alzheimer». Ed è la vita, in un paesino alle primissime propaggini del Monte Bondone, degli zii Camilla e Guidangelo, «un uomo buonissimo» che adorava la moglie, «il suo cuore»: una coppia con i quali stavano pure il cane Pedro, nonna Maria e zio Leandro, «un uomo gentile» dagli «occhi azzurrissimi. Uomo quasi invisibile, nella casa». Una Camilla «minuta e dritta come una canna», con un «fisico poco contadino eppure robusto, capace di governare casa, campi e stalla senza fatica. Era un tratto della sua originalità, così come la passione bizzarra per alcune cose kitsch», e una passione per la fotografia. Il suo «grande dispiacere era stato non avere avuto figli. Dispiacer e di tutta la vita, eterno presente di un vuoto».
Un vuoto colmato da Andreina, una bimba «nata di troppo», perché dopo due femmine i genitori desideravano «un figlio maschio che continuasse la campagna», tanto da trovarsi battezzata «Andrea per dispetto» da una mamma già colpita da depressione post-partum dopo la nascita della seconda figlia, che cede alle istanze della sorella Camilla di affidargliela, rompendo quasi del tutto ogni rapporto con loro. Una «quasi figlia» che gli zii amano «incondizionatamente».
Ma la Andreina che qui racconta è «un a signora di mezza età nata e cresciuta in paese», con due figli ormai grandi avuti con Teo, laureato in legge ma che alla professione forense ha preferito il lavoro di traslocatore: grazie a questo ha incontrato una giovane Andreina scappata di casa, riportandocela, e sposandola tre mesi dopo. Ad Andreina un’inconscia paura fa rubricare come semplici distrazioni i «primissimi segni» dell’Alzheimer della zia, anche perché «Camilla aveva la tranquilla indistruttibilità di chi era stato molto amato».
E Andreina si rende conto che deve «imparare» non solo a gestire i «progressivi deficit di memoria» e il «deterioramento di funzioni esecutive» attraverso certi approcci (evitare espressioni quale «ti ricordi quella volta che…»), ma pure a difendere la zia dai tentativi d’isolarla in un «ospizio», sostituendo al «vedere solo la perduta normalità» la volontà di vivere questa «diversa normalità, perché comunque c’è una vita possibile per chi è malato, bella e piena, anche se diversa».
Ne viene anche un autentico, tenerissimo vademecum in forma narrativa (il collante sta nei corsivi tra i capitoli narrativi e in quelli di riflessione), che porta l’autrice a disegnare altre figure memorabili, grazie alle quali – e nonostante gli interventi del buffo quanto disastroso zio Alfonso, il fratello cappuccino di Camilla – Camilla «ha vissuto anche nella malattia. E ha distribuito allegria e gioia». Dalle due «governanti»: Merhawit , tanto ossessionata dal naufragio dei barconi, da spingersi sempre più a nord, lontana da ogni tipo di acqua; e l’algerina Naima con i due suoi figlioli, liberatasi da un marito padrone; alle «ragazze» del Progetto Alzheimer, che attraverso un rapporto osmotico con la zia giungono ad abolire ogni ricorso ai farmaci, dando spazio a una Camilla «sveglia, non lucida, ma sveglia, e si potevano fare le cose. Tutte le cose che lei era ancora in grado di fare».
Certo, «una donna fragile piena di emozioni e si vedeva», anche nel trasmettere «tutto il suo sgomento, la paura, il bisogno di riconoscimento, la necessità di entrare in relazione, il desiderio di parlare». E però sempre «bellissima, il corpo sottile, i piedi ben calzati nelle scarpe basse di vernice o di pelle scamosciata, i capelli a caschetto eleganti».
Ne viene allora anche un romanzo sulla memoria, in prospettiva inedita: una memoria affettiva che «inselvatichiva il presente ma coccolava il passato»; che, nel pescare una fotografia, «se ricordava qualcosa, raccontava; oppure la metteva da parte, senza preoccupazione», recuperando solo ricordi belli: e dove questo suo riscrivere la realtà diveniva «una specie di lezione di vita».
E così non solo «la zia Camilla viveva», ma con lei «tante persone si scoprirono vive e amabili», permettendo «di diventare tutti migliori». A partire dalle sorelle: l’estrosa zia Lauretta, ben gestita nel suo morbido riavvicinamento a Camilla; ma pure la madre di Andreina, anche se ha un poco da «finale in gloria» il suo porre termine ad anni di astiose incomprensioni e silenzi. Interessante anche la prospettiva della Andreina insegnante (come l’autrice): richiamata nel frequente parallelo tra Camilla e i suoi alunni a proposito dell’imparare a leggere incertezze e sgomenti del vivere.
Una narrazione affettuosa, con una scrittura comunicativa che, salvo qualche espressione o tratto edulcorati, sa ben dosare i passaggi dal dramma alla malinconia, al sorriso, all’allegrezza e persino al comico nel delineare il percorso dalla fragilità alla ripresa del possesso di sé, quale che sia il presente, grazie agli altri.
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Da La Lettura – Corriere della sera, 17 gennaio 2021, 23.
Veladiano, l’arte di riparare con l’amore
di Fulvio Panzeri
Il nostro tempo ha sempre più bisogno di “romanzi di formazione”, in grado di applicare, in modo creativo e nuovo, il senso che questo genere di narrativa ha avuto nella grande tradizione del romanzo e che considerava “formazione” solo il passaggio dalla giovinezza all’età adulta. È possibile, ma anche necessario, estendere l’accezione e lo dimostra Mariapia Veladiano, che si assesta così tra le voci narrative più sicure e intense, ma anche umanamente vive nella tensione della scrittura, della narrativa italiana di oggi.
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Infatti con il nuovo romanzo Adesso che sei qui (Guanda) ci racconta il senso che può avere la “formazione” nei confronti delle persone più amate, degli affetti sicuri, quando si manifesta quel senso della fragilità che li porta a un disorientamento della percezione di sé, della memoria, della cognizione dei gesti più quotidiani, quando “il signor Alzheimer” fa il suo esordio nelle loro vite e diventa un ospite inatteso e sconosciuto, che destabilizza le vite, non solo di coloro con cui sceglie di convivere, ma anche del contesto familiare e sociale che gli sta intorno.
La Veladiano ci racconta una “formazione”, in grado di trasformare il disorientamento e la paura di fronte a una malattia considerata difficile da gestire al di fuori delle “strutture protette” o come vengono chiamate oggi, delle “residenze” per anziani, che è la soluzione che prospetta una riunione dei parenti, poco tempo dopo che la presenza del “signor Alzheimer” si è dimostrata palese a tutto il paese, non lontano dal lago di Garda, in Trentino. Zia Camilla che vive sola dopo la morte del marito, manifesta un disorientamento proprio sulla piazza del borgo. Di lei si prende cura la nipote Andreina, che è diventata la figlia che zia Camilla ha sempre desiderato e mai avuto, avendola presa con sé e cresciuta fin da piccola, quando un momento buio e di malessere della madre naturale ha fatto sì che lei trovasse, all’interno del gruppo familiare, un luogo sicuro di affetti che ne garantisse una crescita serena e felice.
È lei, Andreina, insegnante con molti anni d’esperienza, che sceglierà una strada diversa, quella di stare vicino alla zia, di “riparare” i primi guasti della malattia, con un atteggiamento sereno, lucido, dove anche le bugie hanno la loro forza nel mantenere quel che resta dell’equilibrio interiore profondo di questa straordinaria figura di donna che è zia Camilla, minuta e generosa, da sempre chiamata “la Regina” perché alla regnante d’Inghilterra un po’ assomiglia.
Anziché assistere all’inevitabile assedio dell’“ospite” e alla conseguente fase degenerativa, sceglie di “riparare”, di riportare in una diversa dimensione i nuovi giorni della zia, creandole intorno una piccola comunità che riempe lo scorrere del tempo, la porta a gestire, pur nel nuovo passo lento che le situazioni richiedono, una propria autonomia, puntando tutto sullo svelamento di quella parte affettiva, che è la vera ricchezza di questa donna. Un aspetto che, riportato vivo nell’esperienza quotidiana, è in grado di restituirle momenti di serenità e di quiete: non si dimenticano la forza degli abbracci che zia Camilla sa ancora dare, prima alla donna venuta dall’Eritrea, ospitata dal prete del paese, che aiuta Andreina quando va a scuola; poi al figlio della ragazza giovanissima, algerina, ma già con due figli piccoli, che è fuggita da una relazione sbagliata, tutti e tre ospitati in casa della zia e infine al cane che le ha portato Andreina, molto somigliante al suo amato Pedro, che un giorno era scomparso e mai più ritornato. Insieme a loro troviamo anche le “ragazze” del “Progetto Alzheimer”, ognuna con una loro specificità, che arrivano a una confidenza tale da infrangere le regole del progetto, senza per questo, inficiare il loro lavoro e l’esito dell’intervento.
Ciò che Andreina riesce a costruire intorno alla malattia della zia, in termini di relazioni umane, più che di medicinali (utili, ma non indispensabili e inefficaci senza la presenza dell’aspetto relazionale), porta a una visione nuova, al rispetto di ciò che è ancora vivo nel profondo, anche se la memoria, per certi versi si è guastata. Allora è necessario trovare una diversa possibilità di sguardo, capire come sia possibile arrivare a una “formazione” che tenga conto delle “fragilità” e non le consideri solo da un punto di vista pratico: si tratta di formulare per la zia una vita diversa, dove lei possa riprendere confidenza con ciò che la memoria le riporta: le canzoni che ascoltava, la generosità dei suoi abbracci, il senso puro del suo mondo contadino.
Il senso di questo romanzo, la sua serena e aperta disponibilità alla speranza, resa ancor più tesa dalla lucidità ferma della scrittura della Veladiano, sta nella possibilità che pone di far sì che lo sguardo sia aperto e non cerchi una infida cecità: “C’è questa idea, mito, folle autoconvinzione che la vita sia vita solo se si riesce a ignorare la sua fragilità. Ma la fragilità, con tutto il suo disordine, è la verità delle nostre vite. La vita è sempre fragile e disordinata. Ecco la verità”.
Così la scrittrice scrive un canto d’amore assoluto, che riporta alla tensione delle parole di san Paolo, affidando la voce narrante a una nipote che è diventata figlia e restituisce alla zia, che riconosce come madre, la dignità di tutto l’affetto e di quella benedizione naturale che ha ricevuto, compiendo, con la stessa intensità naturale, quella “riparazione” d’amore che da piccola ha avuto dalla zia-Regina.
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Da Avvenire, 22 gennaio 2021, “Agorà”, 2.
Romanzo d’amore, famiglia e malattia nel tratto delicato di Veladiano
Corriere delle Alpi, 20 gennaio 2021
Il mondo di zia Camilla
Corriere del Veneto, 20 gennaio 2021
La coscienza e l’Alzheimer
Il Giornale di Vicenza, 20 gennaio 2021
“Racconto mister Alzheimer”
L’Eco di Bergamo, 24 gennaio 2021
L’Alzheimer una “coccola” per il passato
BresciaOggi, 25 gennaio 2021
Affrontare la vita “fragile”
L’Adige, 3 febbraio 2021