stupore

Certo che il «farsi meraviglia» è un bel modo di passare i giorni. Io qua e loro là.
Le spalle appoggiate a un angolo alto. Ben difesa, al sicuro come sul trono di un giudice, l’anima sigillata che si basta del suo custodirsi, che non si è persa mai perché non ha mai conosciuto il partire.
E forse nemmeno il patire. Patire necessario che viene dal turbamento inquieto e curioso. Patire come sentire. Senza dolore, pura contiguità al sentire del vicino. Oppure sì, anche con il dolore, a volte, del portare il peso insieme.
Senza grazia è il «farsi meraviglia». Puntuto come una lancia, nel tempo sempre più precisa. Declinazione devota di ogni giudicare: calcolo, misura, vaglio. Stringere la vita in un confine, perforarla con lo sguardo e passare oltre. Senza vedere. E sentire. Il vento dei diciassette anni sulla fronte. E dei settant’anni sulle mani. E la vita che ci circonda da ogni parte, calore e voci da riconoscere per averle incontrate un tempo, amate, sopportate, accompagnate in silenzio, di nuovo incontrate.
Stupore del tempo che rimane. Del sonno che viene. Delle nuvole, delle montagne, del nostro giardino e balcone che sopravvivono al nostro tradimento. Stupore di essere più grandi del nostro giudicare.
Avvenire, 4 aprile 2012

rancore

Senza. Senza l’ossessione: lui mi ha fatto, lei mi ha detto. Per denaro, invidia, potere, indifferenza, malvagità, pura malvagità. Pensiero preminente, su tutto, che mi precede, accompagna, segue. Ombra densa, collosa, che annoda i sentimenti. Irrecuperabile attesa di poter restituire il colpo. Nitido colpo. Ricordo solitario, rimasto lucente nel cinerino del tempo intanto andato.
Senza l’angustia: solo l’immagine, la scena rivista mille volte, le parole sfrontate non si smorzano nell’aria. Perché non c’è aria. Il respiro bloccato ogni volta che il pensiero si affaccia. Lui mi ha fatto. Lei mi ha detto. Maniaco, solitario consumarsi.
Con la libertà: di pensare pensieri nuovi, messaggeri separati dal dolore ormai innocuo, che può diventare prova già andata, risata saggia.
Vita un po’ incauta, pronta a perdersi perché sa di sé, circondata di storie, più serie e più allegre della sua, e voci e coincidenze e scanti, e campi che si possono calpestare lasciando tracce da abbandonare o ripercorrere, insieme e da soli e poi ancora insieme, una festa, allegria del ritrovare questa intima, tutta nostra, potente, necessaria forza che ci fa compagnia.
Vita libera, abbastanza libera, e quindi restituita, nostra unica occasione finalmente afferrata.
Una vita libera dal rancore.

commozione

Si commuove il corpo. A sorpresa, prima che l’opportunità, la ragionevolezza, la buona educazione, la paura, la fretta, il decoro, la dignità, l’egoismo possano alzare il muro.
Si commuove a tradimento, nello spazio confuso fra un istante distratto e un altro. Certo, è uno sconcio commuoversi. Il corpo è così scomposto se ci prende a sorpresa: piange, trema, magari si muove da solo, verso l’altro, prima che possiamo ricordarci la prudenza, il decoro, il buonsenso. A che serve far qualcosa: piccolo, inutile, svanito, patetico, romantico, visionario avvicinarsi solitario che vince un momento la paura, e riesce a veder l’altro in me, confusione buona, primitiva, fraternità ritrovata in un mondo di figli unici, forse nemmeno figli, non sia mai che ci tocca esser grati a qualcuno.
Un passo, ecco un passo il corpo l’ha fatto e lo spirito vien dietro perché ha visto e se questo vedere capita il mondo è diverso, pieno di nomi e suoni, non più un battere strade senza nome fra ombre che si ignorano senza fatica.
C’è verità nel corpo: sa che l’amore è nato, lo sa prima che il pensiero se ne accorga. Per gli inganni ha bisogno dell’oscurità.
Si commuove il corpo benedetto, umanità comune, dimora di Dio.
1 aprile 2012

quelle isole felici che il mondo ancora ci invidia, gli asili nido

PARLARE di bambini un poco si rischia e più son piccoli più si rischia perché basta una parola, una sfumatura?, e ci si trova crocifissi. Proviamo, con prudenza. Mandare i bambini all’asilo nido sembra proprio che faccia bene. Al netto dalle malattie e dalle ansie dei parenti stretti, se il nido è buono fa bene ai bambini, ai genitori, alla società. I bambini si trovano al centro di un’attenzione pedagogica che li espone a esperienze sensoriali, comunicative, di apprendimento importanti, che favoriscono un atteggiamento di apertura al mondo, di curiosità e di interesse che dell’apprendimento sono l’anima. Un’indagine della Fondazione Agnelli di qualche anno fa dice chiaramente che i bambini e le bambine che hanno frequentato il nido hanno risultati scolastici migliori.

E poi c’è l’aspetto della socializzazione, l’educazione alla diversità, l’integrazione. Una società di figli unici come la nostra deve preoccuparsi di farci precocemente sperimentare che non siamo dio.

L’Italia ha conosciuto una stagione abbastanza felice in cui per un’amministrazione comunale realizzare l’asilo nido era motivo di orgoglio, significava corrispondere a una richiesta di civiltà perché c’era un bisogno delle famiglie che veniva soddisfatto, e insieme significava assecondare la vocazione all’equità che è la ragion d’essere di ciò che è pubblico: amministrazione pubblica, scuola pubblica, servizio pubblico in generale. I ricchi sanno sempre come sortirne, rubando la bella espressione a don Milani, i poveri van tutelati dal politico, il pubblico appunto.

Dei nidi erano belle anche le strutture, nuove nuove, venute da un pensiero pedagogico anche loro, e non aulifici ereditati da due secoli prima, come ancora sono le nostre scuole medie e superiori.

Non del tutto felice nemmeno quella stagione, perché complessivamente siamo sempre stati lontani dal 33% di posti nido garantiti che era l’obiettivo dell’Unione europea per il 2010 (nei Paesi scandinavi i bambini che vanno al nido sono intorno al 70%, e anche lì i risultati dei test internazionali sono elevati) e perché la forbice delle risorse ha riprodotto in Italia la geografia della disuguaglianza economica e sociale che conosciamo: pochissimi nidi al sud e insieme scarsa occupazione femminile (causa o effetto, il dato c’è), di più e di eccellenza nelle regioni del nord, che l’obiettivo del 33% lo hanno raggiunto e che registrano un’occupazione femminile anche doppia. Anche se le liste d’attesa sono un dato presente in tutta Italia.

La crisi economica ha corroso questa realtà, come molte altre. I comuni hanno esternalizzato i servizi, gli appalti al ribasso hanno avuto ricadute sulla qualità dell’offerta e anche sulla qualità del lavoro degli educatori, costretti a condizioni più difficili. Il contributo chiesto alle famiglie, sempre più alto. Non nascono nuovi asili nido. Le “Sezioni primavera”, classi di bimbi di norma aggregate alla scuola d’infanzia e create per accogliere almeno una parte di chi non riesce ad entrare nei nidi, vengono finanziate di anno in anno e in numero sempre minore.

Oggi i nidi sono in crisi. Sono affiancati da una polverizzazione di esperienze nate dal bisogno e molto disomogenee. La scuola d’infanzia è a sua volta nata dal bisogno e per accumulo di supplenze alle inadempienze dello Stato. Il 60% è statale, il 12% è comunale, il 28% è privata. La privata per sopravvivere ha bisogno dei contestatissimi contributi statali ma lo stesso non riesce ad assicurare l’integrazione dei bambini con difficoltà. Bel paradosso dal momento che nella scuola d’infanzia il privato è soprattutto cattolico, parrocchiale.

Una legge che disegni una politica dell’infanzia in termini di equità sociale, inclusione e formazione e non di risparmio è assolutamente un bene in questi giorni schiacciati sulla paura del presente. E la lezione che ci lascia una certa buona storia è che il pubblico funziona se scatta un senso di appartenenza forte, cioè se rimane ben saldato alla dimensione locale, relazionale, familiare. A dispetto del nome, che registra forse la resistenza tutta italiana a far uscire i bambini dalla famiglia, ad affidarli alla vita loro, la storia (felice) dei nostri asili nido di eccellenza è una storia di fiducia sociale realizzata.

La Repubblica, 24 febbraio 2015