PARLARE di bambini un poco si rischia e più son piccoli più si rischia perché basta una parola, una sfumatura?, e ci si trova crocifissi. Proviamo, con prudenza. Mandare i bambini all’asilo nido sembra proprio che faccia bene. Al netto dalle malattie e dalle ansie dei parenti stretti, se il nido è buono fa bene ai bambini, ai genitori, alla società. I bambini si trovano al centro di un’attenzione pedagogica che li espone a esperienze sensoriali, comunicative, di apprendimento importanti, che favoriscono un atteggiamento di apertura al mondo, di curiosità e di interesse che dell’apprendimento sono l’anima. Un’indagine della Fondazione Agnelli di qualche anno fa dice chiaramente che i bambini e le bambine che hanno frequentato il nido hanno risultati scolastici migliori.
E poi c’è l’aspetto della socializzazione, l’educazione alla diversità, l’integrazione. Una società di figli unici come la nostra deve preoccuparsi di farci precocemente sperimentare che non siamo dio.
L’Italia ha conosciuto una stagione abbastanza felice in cui per un’amministrazione comunale realizzare l’asilo nido era motivo di orgoglio, significava corrispondere a una richiesta di civiltà perché c’era un bisogno delle famiglie che veniva soddisfatto, e insieme significava assecondare la vocazione all’equità che è la ragion d’essere di ciò che è pubblico: amministrazione pubblica, scuola pubblica, servizio pubblico in generale. I ricchi sanno sempre come sortirne, rubando la bella espressione a don Milani, i poveri van tutelati dal politico, il pubblico appunto.
Dei nidi erano belle anche le strutture, nuove nuove, venute da un pensiero pedagogico anche loro, e non aulifici ereditati da due secoli prima, come ancora sono le nostre scuole medie e superiori.
Non del tutto felice nemmeno quella stagione, perché complessivamente siamo sempre stati lontani dal 33% di posti nido garantiti che era l’obiettivo dell’Unione europea per il 2010 (nei Paesi scandinavi i bambini che vanno al nido sono intorno al 70%, e anche lì i risultati dei test internazionali sono elevati) e perché la forbice delle risorse ha riprodotto in Italia la geografia della disuguaglianza economica e sociale che conosciamo: pochissimi nidi al sud e insieme scarsa occupazione femminile (causa o effetto, il dato c’è), di più e di eccellenza nelle regioni del nord, che l’obiettivo del 33% lo hanno raggiunto e che registrano un’occupazione femminile anche doppia. Anche se le liste d’attesa sono un dato presente in tutta Italia.
La crisi economica ha corroso questa realtà, come molte altre. I comuni hanno esternalizzato i servizi, gli appalti al ribasso hanno avuto ricadute sulla qualità dell’offerta e anche sulla qualità del lavoro degli educatori, costretti a condizioni più difficili. Il contributo chiesto alle famiglie, sempre più alto. Non nascono nuovi asili nido. Le “Sezioni primavera”, classi di bimbi di norma aggregate alla scuola d’infanzia e create per accogliere almeno una parte di chi non riesce ad entrare nei nidi, vengono finanziate di anno in anno e in numero sempre minore.
Oggi i nidi sono in crisi. Sono affiancati da una polverizzazione di esperienze nate dal bisogno e molto disomogenee. La scuola d’infanzia è a sua volta nata dal bisogno e per accumulo di supplenze alle inadempienze dello Stato. Il 60% è statale, il 12% è comunale, il 28% è privata. La privata per sopravvivere ha bisogno dei contestatissimi contributi statali ma lo stesso non riesce ad assicurare l’integrazione dei bambini con difficoltà. Bel paradosso dal momento che nella scuola d’infanzia il privato è soprattutto cattolico, parrocchiale.
Una legge che disegni una politica dell’infanzia in termini di equità sociale, inclusione e formazione e non di risparmio è assolutamente un bene in questi giorni schiacciati sulla paura del presente. E la lezione che ci lascia una certa buona storia è che il pubblico funziona se scatta un senso di appartenenza forte, cioè se rimane ben saldato alla dimensione locale, relazionale, familiare. A dispetto del nome, che registra forse la resistenza tutta italiana a far uscire i bambini dalla famiglia, ad affidarli alla vita loro, la storia (felice) dei nostri asili nido di eccellenza è una storia di fiducia sociale realizzata.
La Repubblica, 24 febbraio 2015