angoscia

Dal profondo. Quel che nasce dal profondo porta con sé una promessa. Non è senza fine il cadere nell’angoscia, c’è un punto da cui risalire, dal profondo di un dolore che posso dire almeno come grido, che altri possono sentire, per poi guardar giù e insieme attrezzare un soccorso. Ci sono pietre da sollevare, passaggi da costruire, persone da far tornare, un indirizzo da scrivere, o una poesia, un corpo da curare.
Una qualche piccola puntuta, a volte solo pensosa, verità che abbiamo dovuto trovare e che ora è parte di noi, oppure che possiamo mettere in comune con chi ci ha aspettato là fuori, forse per tanto tempo, senza poterci aiutare, ma senza sparire mai.Quanto all’angoscia, è il nostro segreto.
Un esser sull’orlo di tutto, affaccio sul morire e quindi sul sapere, finalmente, vedere il nostro agire nel tempo sempre più svelto e più lontano e meno mio, e invece sempre più di altri che chiamano, vogliono, si aspettano, si aspettano da noi quello che non siamo. E l’angoscia è questo quasi da fuori capire che non sappiamo, davvero non c’è luce per leggere, però possiamo insieme regalarci l’un l’altro infiniti perdoni e con la gioia di questi doni andare fino in fondo, come tutti, con tutti, e infine forse sapere, sì, ma intanto essere felici, per quanto possibile.
Avvenire, 17 aprile 2012

speranza

C’è qualcuno che mi aspetta.
Una corsa possibile, che potrebbe fare e farà, per venire e insieme resistere, ancora una giornata, tutta nuova, nessun gesto distratto ancora fatto, non una parola sgarbata ancora detta, nessun appuntamento saltato.
Certo non è qui ora. Né lui né lei. Mi rimane il segno di un profilo, visto certamente, l’impronta di una voce sentita un tempo chiara, era una promessa, non sei sola, non lo sei mai stata ma ora lo sai.
Fa la differenza averlo sentito. Poterlo ricordare.
C’è forse un tenere estremo, così timoroso di apparire che non vuole farsi sentire. Ma a me è stato detto.
So che nemmeno il silenzio è un addio. Che l’assenza è un impedimento, suo, o un’incapacità, o un’impossibilità. Ricordo quel che è stato e lo sento parte di me, per sempre dentro come cosa buona,
Vista da sempre. Sono stata vista da sempre. Pensata e voluta e poi desiderata come radioso compimento di una vita.
Mi si dimentica, oggi, così penso nel mio bisogno.
Ma una promessa mi è stata fatta. Era qualcuno che le promesse le mantiene. Anche quelle a cui nessuno ha creduto. Ha detto che sarebbe tornato. Ed è tornato.
C’è qualcuno che mi aspetta, oggi. Devo alzarmi, devo andare. Ho promesso. Ricordo bene di aver promesso.
Avvenire, 15 aprile 2012

disperazione

C’è questo stupore che il tempo continui, continui oltre il nostro dolore. Com’è possibile che le persone abbiano ancora un’intenzione, una meta da raggiungere, un’incombenza da sbrigare, magari in fretta e di corsa, senza niente pensare. E il governo un decreto astratto e indifferente da votare, assenti tutti dai banchi, tranne gli interessati. Perché ancora sono convinti che un interesse, il loro interesse, valga la pena. Mentre il mondo è tutta una pena. E tutti fan finta di credere a qualcosa: la cena da preparare, il bollo da incollare.
Bisogna averla conosciuta la disperazione. Toccato la fine del nostro mondo, addossati al confine ultimo, niente più in là. Non il caldo di un desiderio che ci aspetta almeno come promessa, non le mani che ci sfioravano e che abbiamo perduto, nemmeno la fantasia, la più bugiarda delle promesse. Niente. Niente.
E niente si può dire perché la disperazione sente solo parole insincere, che dicono la consolazione senza conoscerla, e fanno male come una predica distratta a un funerale.
Che ci trovino accanto. Silenziose presenze senza pretesa. Senza giudizi. Senza soluzioni. Dove trovar pace. Una vastità accogliente. Che non giudica. Che offre riposo. Non siamo soli, non siamo soli.
Avvenire, 14 aprile 2012

indifferenza

Capita di attraversare il mondo con occhio straniero. Straniero alla vita. Con il cuore in un altrove che non sappiamo dire, non perché ci manchino le parole, ma perché anche quell’altrove non vediamo.
Di camminare fra nomi che non ci evocano storie, perché non ricordiamo i nomi, e non ascoltiamo le storie. Di non riconoscere nulla che abbia valore, a partire da noi, a partire da noi. Nessun messaggio da raccogliere. Né lettere da inviare. Nessun dolore da sentire, nessuna simpatia da assecondare.
Da dove si ricomincia? Come scassinare la nostra chiusa vicenda di solitari, malinconici passeggeri per caso, per sbaglio.
Bisogna educare bambini e ragazzi e adulti e anziani, un mondo intero che avanzi pretese sulla nostra indifferenza. Che vanti il diritto di imporsi al nostro passare oltre. Di costringerci a salvare la loro unica vita. Che si aggrappi alle nostre mani e si faccia accogliere e accudire.
Strapparsi gli uni gli altri all’indifferenza diventando profeti che gridano e ci consegnano al dovere di salvarli, di salvarci. Un vedere, finalmente, che ci soddisfa lo spirito e anche le mani. Essere al proprio posto, fra persone di cui sappiamo raccontare le storie perché sono anche la nostra storia.
Avvenire, 13 aprile 2012