ammiccare

Purché il male non si veda. Disposti a tutto. A chiamarlo normale: normale ostentare la ricchezza, normale esibire potere, parole e persone, normale prevaricare, farsi raccomandare, tradire per poter luccicare un momento in tv, sul podio, sul palco, della fiera di paese. E poi negare: la malattia segregata o esibita, e l’età che naturalmente cammina, e poi la morte che ci dice
creature.

E c’è poi un modo oggi fatale di nascondere il male. Raccontarlo per minuto, di dritto e di sguincio, con tendini candidi recisi di netto da mannaie di criminali o da bisturi di anatomopatologi, fra urli e silenzi che ugualmente ci frastornano.
Troppo vedere, per poter non distinguere, ammiccare indecente al nostro essere peggiore. Troppo dentro, troppo frullati per poterlo chiamar per nome il male. Pronti a dire che tutto è male nella notte nera delle nostre responsabilità.
Coltivare col pensiero l’impotenza dell’azione. Come se non ci fosse una possibilità di giustizia, se non di ripararlo almeno di denunciarlo il male, dar voce limpidissima a chi lo subisce, dire che forse è sì vero che non possiamo a volte evitare di dargli principio, ma lo possiamo fermare ogni giorno in noi, chiamarlo per nome e dirgli: «Qui oggi tu non passi, in me, tra noi, non passi».

Avvenire, 13 maggio 2012

parlare

Dire solo parole che fanno la differenza.
Prima qualcuno era fuori, e noi lo abbiamo invitato ad entrare. Anche se non aveva le parole per chiederlo.
Lui non conosceva il suo nome, e noi lo abbiamo chiamato mentre ancora era lontano. Pentecoste quotidiana di chi si riconosce.
C’è anche chi non sa proprio le parole, straniero al paese in cui ha trovato rifugio e anche a se stesso in questa terra, e allora noi gliele insegniamo, una a una, festoni di suoni colorati appesi alle pareti d’aula, raggruppate in famiglie composte e perbene: casa, casina, casetta, casona, casata. Anche caserma per movimentare un po’. E a volte capita di consegnare una parola per noi indifferente e facile facile, come mare, ad esempio e quando loro, i bambini, ce la restituiscono e appendono il festone, scopriamo che non hanno potuto far famiglia, perché forse l’hanno persa per sempre, e le parole ci ritornano raggruppate per desideri e dolori: mare, mamma, casa. E anche porto, buio, onde, paura. E felici allora se troviamo parole che accolgano le loro che adesso oscillano lievi ogni volta che le sfioriamo sospese, disposte a diventare racconti non ancora scritti ma già pronti quasi a disperdersi nel mondo quando il vento entra dalle finestre aperte dell’aula e le solleva come la coda di un aquilone.

Avvenire12 maggio 2012

ricominciare

Ad essere civili? A controllare le parole che pronunciamo irrimediabilmente? A raccontare storie che ci fanno abbracciare?
A ricordare. Quel che molti ci hanno offerto. E i desideri che frullavano le nostre mattine. Senza misura e durata. Promesse di tutte le creazioni possibili.
A ostinarsi, e a non lasciare che la furia d’esistere di cui ci sapevamo felicemente impastati si lasci sfumare dall’abitudine a pensare pensieri comuni, desideri di tutti, circoscritti di sicurezze, troppo presto diventati cemento di muri alla cui ombra adattarsi, invece che pensieri dispersi, consegnati e ritornati freschi con la grazia e la larghezza di un campo di nuovo fiorito senza sforzo alcuno dalla polvere invernale.
Ricominciare dopo essere stati frodati di tutto, incompiuti, inflitti, mancanti, senza un bene da rivendicare, un bambino da accudire e grazie al quale dimenticarsi, senza essere eroi, con la grazia unica, tutta nostra, ricevuta e forse per un poco dimenticata, di poter osare tutta la libertà, santi non necessariamente, ma divini sì, in quella vita ricevuta che è per sempre nostra, forza, luce, in fondo, dentro, che esce quando non l’aspettiamo, ma la vogliamo, e ci fa ricominciare quando tutto sembrava perduto.

Avvenire, 11 maggio 2012

generare

Di generazione in generazione. Si pensa (forse, si è pensato) a volte che generare sia scontato e naturale, vita ricevuta con gratitudine e data con la spontaneità operosa della primavera che arriva con il suo incanto sicuro.
Pensare incauto, quasi che il dubbio portato dal fumo indecente dei campi non avesse oscurato il cielo, il cielo delle stagioni, per non dire del trono di Dio. E come se la paura non abitasse oggi il centro di tutto. Paura di non avere abbastanza, non poter difendere dal dolore, non saper dire le parole che rispondano al perché: «Perché la vita, col suo male?».
Abbiamo dilapidato il bene del mondo a nostra condanna. La sua bellezza, e non c’è più il candido appena rosa di un melo fiorito da offrire in risposta, né quasi più ormai un paesaggio nel mare di nebbia per cui ringraziare. Abbiamo chiamato successo il nostro prevaricare, e neanche l’offesa abbiamo condannato, o il potere ostentato alla faccia del povero.
Oggi generiamo sapendo di dover rendere ragione ogni ora della fede che è in noi. Quasi una santità segreta ci è richiesta, minutissimo discreto mostrare che tutto ha valore di questa tremenda splendida vita che pure vogliamo.
Che possiamo non sottrarci alla vita, nostro bene, nostro tutto.

Avvenire10 maggio 2102