scappare

E come si fa?
La terra è una. La vita è una. La nostra umanità è una. Scappare vuol dire lasciare indietro qualcosa. Cosa lasciamo? Quale lontano possiamo raggiungere se la vita ci precede, ci avvolge, ci abita?
Certo è una tentazione e come tutte le tentazioni è un’illusione. Sembra una via d’uscita: «Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!» (Mt 27,40).
È la croce il problema. La dolorosa struggente chiarezza del male che tocca le nostre vite. E la tentazione di scappare è forse di chi più sente e ha sentito e per contagio di comune umanità continua a sentire che non c’è riparo al dolore perché il dolore è mistero da sempre e nel suo mistero non preferisce i malvagi, a nostra consolazione.
Gli altri non ci pensano neanche a scappare e la calcano bene la terra, con falcate lunghe che lasciano il solco, e a gambe larghe fanno sosta davanti alle croci sbracciandosi a dire che se la son voluta, che basta saper vivere. E non sanno la vergogna di sé.
È il nostro restare, insieme e non divisi, che sfida ogni giorno
la barbarie di tutte le croci. Qui in terra. Sperando il giorno, ma saldi a passare insieme la notte.
«Può darsi che domani spunti l’alba del giudizio universale: allora, non prima, noi deporremo volentieri l’opera per un futuro migliore». (Dietrich Bonhoeffer)

Avvenire, 18 maggio 2012

riparare

Non è di moda, non lo fa più quasi nessuno, dalle scarpe ai rapporti. Funziona o non funziona e buttare è un gesto distratto, una piccola parabola in discesa che attraversa clandestina la coda dell’occhio intanto che facciamo il caffè. E che non si veda dove finisce. È fastidio intollerabile la Geenna cittadina dei rifiuti fumanti.
Anche i rapporti. Le storie stampate ci insegnano: è amore, naturalmente eterno, se dura cento pagine, poi diventa indifferenza a scomparsa e odio, quello sì eterno. Perché un altro amore, naturalmente eterno, si fa largo nelle ultime pagine.
Persone appaiono e dispaiono. Amici, nemici, lontani, nessuno. Come se il mondo fosse solo deserto o giardino, ineluttabile abitare quel che capita, perché così va la vita, non c’è niente da fare, bisogna prender quel che viene, ma dove-vive-lei, la gente è così, a esser sognatori ci si perde sempre, come se non si potesse coltivare il deserto, e anche il giardino.
È un’arte il riparare, se ben coltivata può far nuove tutte le cose, e non perderne neanche una, né una persona mai, perché bisogna aver vicino quel che si ripara e così, semplicemente, non si dimentica il suo valore. In tutta la Bibbia è un’arte divina, come il creare.
«La terra, che era desolata, è diventata ora come il giardino dell’Eden». (Ez 36,35)

Avvenire, 17 maggio 2012

sedurre

Eppure c’è del buono nel seduttore. C’è la vita dentro il suo desiderio bulimico dell’altro, delle altre, uomini e donne non importa, processioni stregate dalla promessa del mercante, d’amore, di parole.
Il suo potere è nelle parole. Un incanto. Sempre quelle giuste, mai barocche, esagerate eccessive, retoriche. No no. Sempre sull’orlo di quel traboccare oltre ma non traboccano mai. Promettono di farlo ogni istante e alla promessa sono aggrappati i desideri di chi lo ascolta. Donne soprattutto? Perché del loro desiderio d’amore racconta la letteratura? No no, gli uomini anche. Perché è il potere a sedurre. Dirigenti, docenti, politici, scrittori. Anche sedicenti, finché dura.
Dà più dolore che gioia il seduttore, molto più dolore. Ma tutti intorno a lui sperano la gioia che le parole promettono. Perché lui conosce i desideri. Esser visti, noi unici agli occhi suoi, e poter vivere. Riconosciuti finalmente, nella luce sua brillare un poco anche noi alla fine. E ora l’uno ora l’altro lui lo guarda e tocca, e così tutti sospesi sperare. E il suo potere così è grande e vince lui, sempre lui la contabilità dell’avere.
È l’obbedienza il controveleno al seduttore. Obbedienza al chiamare di chi non sa gridare il suo bisogno e così poter dire con allegria: «Eccomi!». E ritornare alla nostra pace.

Avvenire, 16 maggio 2012

attendere

È un ponte, l’attesa. Si crede che oltre, dopo, ci sia qualcosa, anche se può capitare di non veder bene. Ma c’è un passo da fare e lo facciamo, a volte sull’impronta segnata da un altro. C’è un desiderio che mi porta e diventa movimento e se il procedere è senza traccia alcuna capita di pensare che il ponte si costruisca sotto i nostri passi, diventati noi creatori, per grazia.
È buona l’attesa, ci restituisce alla nostra responsabilità: se dopo di me non c’è l’abisso, custodisco allora il tempo che vivo e quello che viene. Per chi ancora viene e verrà.
Quando oltre c’è qualcuno, allora l’attesa diventa un preparare veloce, festoso e inquieto, dal vestito ai pensieri alle parole: cosa dirò? come starà? Allora tutto di noi diventa importante, e anche intorno a noi, lo spazio, le cose.
Non c’è debolezza, rassegnazione, pigrizia, indolenza nell’attesa. Nella promessa consegnata l’attesa è vita purissima, coltivata, difesa, progettata, infine riconsegnata a chi l’ha a sua volta attesa.
Non si deve aver paura di fare promesse.
Così è l’amore che sa mantenere quel che ha promesso anche nei lunghi spazi delle assenze che sappiamo capire e anche che non possiamo capire.

«Assenza, più acuta presenza». Attilio Bertolucci.

Avvenire, 15 maggio 2012