raccontare

C’è stato un tuo antenato, un bis bis bis antenato, si è sposato ormai già vecchio, quasi non ci credeva che ancora potesse capitare, qualcuno dice che gliel’abbiano procurata la tua bis bis bis antenata, di certo quel giorno, raccontano, cantava. Ma i figli sono arrivati, una covata come allora succedeva. Tre andati presto in cielo, come foglie portate, due in guerra, uno rimasto sottoterra, straniera.
Troppo dolore si può pensare. Ma il filo ancora c’era, e anche la cosa nuova, la cosa vecchia e i fiori per l’altare.
E molti nomi fu necessario assegnare, i più ricordavano gli angeli custodi già partiti, per non dimenticare. E si coltivavano le viti accoppiate ai pioppi, perché nulla andasse perduto della festa che ci aspettava.
Poi venne ancora la tempesta e qualcuno scappò, qualcuno rimase, i più furono presi, o silenziosi, ma nuovi patti furono stretti. Chi portò il pane, chi lavorò calzetti per la neve, chi mangiò messaggi, come il santo profeta col rotolo divino. E anche l’ira fu santa, verso chi aveva in odio la vita, e questi e gli altri trovarono salvezza.
Qui sei nato tu, un nome nuovo ti chiama e tutto è riconsegnato, mai perduto, e le storie che puoi raccontare possono alzare argini all’offesa e di nuovo ancora permettere di cantare.

Avvenire, 23 maggio 2012

arrendersi

Non si può.
Per noi, forse, vorremmo, quando la stanchezza è tanta e non si vede la sua fine. La nostra vita può sembrarci troppo provata, o abbastanza data. Vien concesso a qualcuno di vivere intensamente, con un coraggio che non si sa di avere, nelle mille chiamate di chi ha solo noi in cui sperare. È una grazia che può consumare.
Viene il giorno in cui si ha l’impressione di essere traccia, lasciata per pochi, in terra o nel ricordo, per poco anche quello. E si resiste finché il cuore ci basta e la malinconia non scava in noi maschere che interrogano e ci sentiamo soli.
Però può essere che tocchi attraversare notti lunghissime, e temere ogni sorta di caduta, vassalli e mai cavalieri, e non sapere il proprio valore, bersagli di chi passa e sa dove andare mentre noi no. E nessuno sembra aver bisogno di noi.
Qui è più forte la tentazione. E ci sembra di aver ragione.
Non so se le notti son per tanti così nere, né se la resa si mostri a tutti con la promessa paga e noncurante di una pace quale che sia.
Ma non si può, perché per tutti questa è l’unica assoluta nostra preziosa vita, e quel che è giusto c’è ancora chi lo aspetta, e non ha visto il principio del suo essere eterno.
Si può esser stremati e cercar compagnia. O solitudine. Ma arrendersi no.
Avvenire, 22 maggio 2012

 

 

desiderare

È tutto.
Ci muove, adolescente furia d’esistere, ci porta da molte parti, tutta la vita ora in un punto, ora in un altro, appena più in là o in fondo in fondo all’orizzonte forse intravisto, o immaginato, ma sentito potente dentro di noi. A volte immobili, costretti dal tumulto che ci mescola corpo e spirito, spaventati dal furore, desiderio di tutto, voler visitare gli antipodi e doverci fermare davanti al bisogno del primo che incontriamo, e poi del secondo, perché tutto sia perfetto, desiderio di paradiso, e nessuna offesa sia taciuta, e ogni possibile nostra parola di consolazione sia detta, e anche i pozzi scavati, e le scarpe messe ai piedi di chi è senza, perché anche lui possa alzarsi e seguire il suo desiderio, a volte solo quello di poter esistere, solo quello per lui, e allora ancora un desiderio ci porta, di aggiustare il mondo, e portare fiori e scrivere storie che raccontino il bene che abbiamo, le ingiustizie da avversare, il coraggio da insegnare.
E certo, è un unico avvolgente esser uomini e donne, desiderare un amore, un figlio, anche orfani di chi non abbiamo saputo aiutare, esser padri e madri gli uni gli altri, desiderare la vita, la vita, la vita.
«Si dovrebbe voler essere un balsamo per molte ferite». (Etty Hillesum)

Avvenire, 20 maggio 2012

tacere

Ogni volta che c’è da ascoltare. Silenzio necessario per captare suoni anche lontani, richiami a cui accorrere, passi di qualcuno che è atteso, e potergli andare incontro, preparare per lui il nostro spazio.
O per non perdere parole che a volte appena muovono l’aria. Parole che rovesciano la nostra storia, o la sua.
Anche quando non si ha niente da dire si deve tacere. Sulla persona che nemmeno conosco, ma so ogni cosa, arrivata dal parlare di chi a sua volta nulla conosceva, ma non ha taciuto. E allora tutto può essere detto e chi ferma il fiume delle parole ormai dette?
E poi tacere quando c’è da conservare un segreto. Consegna di sé. Chi sa oggi tenere i segreti?
E davanti alla tragedia. Per sentire il morbido passaggio delle schiere di angeli che corrono, a salvare un bambino, e non sappiamo perché non li salvano tutti. E poi quindi tacere anche davanti al mistero assurdo e supremo della morte bambina. Per non dire parole superbe e sentire se forse una Parola arriva, di consolazione e promessa: ci sono, sono qui, risorto come tutti risorgono.
Tacere per sentire il suono della Parola che leggo.
Per ascoltare il suono del proprio esistere.
Per custodire verità che possono far trafiggere.
Ma quando la nostra parola attesa può salvare, guai a noi per il nostro tacere.

Avvenire, 19 maggio 2012