bugie

Ormai son cose di bambini. O di antiquari, a voler essere appena un po’ colti.
Accomodare la verità al proprio scopo è saper vivere, essere diplomatici, a volte delicati, politici, accorti, avveduti, addirittura buoni e misericordiosi, a risparmiarci il vero. E così si dice e sdice, vertigine infernale in cui le parole son solo male. È un subdolo convincersi che in fondo non è niente, dire ieri e oggi negare. In fondo, chi ci crede?
E si va sicuri del proprio contraffare, recita in cui la parte ci è assegnata, spettatori, lì a guardare e a pensare che in fondo il meglio che potremo sperare è domani recitare, sullo stesso palcoscenico, in ossequio al nostro prevalente, quale non conta davvero niente, purché il pubblico ci sia.
E intanto vivere scontenti, aspettar domeniche in cui lavare auto da immacolare, incespicando in giorni disattesi, a credersi in fondo non poi così male, perché intorno è tutto un replicare, e la confusione ci fa dormire.
Qualcuno ogni tanto che lo annuncia, con parole solenni e ben calcolate, che qui muore la fiducia, e poi il nostro diritto di valere, la bellezza di credersi, e anche la speranza che ci sia sponda al nostro cercare, la pace di affidarsi.
Ma ormai bene addestrati, dopo un po’ di ascoltare ci diciamo che in fondo, appunto, anche questo è solo un parlare.

Avvenire, 2 giugno 2012

ciechi

A diventare ciechi si impara duramente. È un apprendistato minuto e quotidiano. Tutt’occhi sono i bambini. Ditini sfoderati che vedono lontanissimo, perennemente stupiti, curiosi, arrabbiati anche, di volere andare e toccare quel che è nuovo e vivo. Capricci che dicono la verità sul bisogno umano di non chiudere gli occhi.
Eppure si impara a camminare fra ali di ignoto, ignorato. Amnesie rituali e irrituali frutto di un addestramento tenace che comincia presto presto.
È il genitore che attraversa la strada all’opposto del lato in cui lontano, da molto lontano anche lui, vede il povero.
E forse non sa di essere stato scritto nel Vangelo.
È il telegiornale che della miseria fa panino, fra uno scandalo e un gossip. Babele delle immagini in cui si frullano bene e male e tutto diventa implacabile e normale.
È anche il nostro bene, curato e ben difeso, con annesso garage sempre più grande, terrazza per le feste, recinti bene alzati.
E anche questo è stato scritto: Gli idoli degli uomini sono argento e oro, opera delle mani loro. Hanno bocca e non parlano; hanno occhi e non vedono. Sia come loro chi li fabbrica.
Finché l’operazione diventa perfetta e si finisce con il non vedere nemmeno la nostra aspra, egoista e solitaria infelicità.

Avvenire, 1 giugno 2012

vedere (4)

Come un contemplare.
«Vedere la grande capacità e rotondità del mondo in cui vive tanta gente così diversa» (S. Ignazio di Loyola).
E ci raggiunge la vita di tutti, lasciandoci storditi di tradimenti subiti, stremati di traversate con il sale sulle mani, con le gambe come sassi, in fila ad aspettare, e sabbia e cemento respirare, in corsa a scappare da nemici che son d’altri ma mi spingono da tutte le parti, e potrei morire per il troppo sentire, come ieri sono morti in venti, solo quelli che qualcuno ha contato, ma son molti più, e lo so come si sa la vita tutta intera, se solo la si ascolta e non si scappa, per non trovarsi commossi per eccesso di mondo, che arriva forte e chiaro come un grido nella sera e turbati da una tenerezza che non sa la vergogna, felici di sentire come si sente con il corpo nell’amore che ogni vita è la mia vita e non c’è felicità possibile se il mondo intorno a me si apre e sprofonda e così, non per un attimo che passa, non per solo sentimento e nemmeno per comandamento, ma perché ovunque noi siamo anche tutti quelli che incrociamo oppure sono da qualche parte e siamo fatti un po’ più divini, nel portare.
Un vedere ci trasfigura e non si sa come, l’allegria diventa nostra, e un po’ anche di tutto il mondo.

Avvenire, 31 maggio 2012

vedere (3)

Vedere dall’alto è un bel sollievo.
Intanto, niente odori. E si può gonfiare il torace finalmente. Bello largo. Poi non ci toccano. Tutta questa promiscuità. Sette miliardi siamo, qualcuno si riproduce in modo irresponsabile. E anche le orecchie hanno tregua: tutti a lamentarsi, e parlare. E infine dall’alto abbiamo le giuste proporzioni.
Son piccoli piccoli. Forse non sono nemmeno come noi. Diversi, per razza, lingua, vestiti, cucina, vocazione. C’è chi vince e c’è chi perde, la legge della vita.
Le migrazioni ci sono sempre state, le invasioni barbariche noi le abbiamo studiate. E alla fine, chissà cosa c’è di vero in tutto questo drammatizzare.
Poi capita che la tempesta ci fa precipitare. E può essere grazia.
Perché, respinti fino all’orlo dell’ira, non avranno tregua al rancore, né noi alla colpa, se non ci troveremo un giorno accomodati di fronte a guardarci negli occhi a raccontare il nostro aver troppo volato fino ad essere ciechi.
Non sempre si arriva fin dentro la terra promessa della nostra comune umanità. Anche la Scrittura racconta eroi che non ce la fanno. Ma non rassegnarci al deserto dei sentimenti, non rimpiangere il nostro tronfio non capire, e poter dire a chi incontriamo: «Questa è la nostra terra. Felice che almeno tu la possa abitare».

Avvenire, 30 maggio 2012