scarti

Oggi gli scarti son moltitudine.
Si scarta il cibo ormai passato, ed è un vero peccato innaturale, nuovo, che passa inosservato, come quelli che fan tutti e non si vedono quasi più.
Per i vestiti la coscienza è già più chiara. Scartati, i vestiti vengono solennemente recuperati, certo, da qualche parte altrove, e saperlo o immaginarlo ci fa sentire un po’ più buoni. In fondo, non erano nemmeno così sciupati.
Con le ipotesi andiamo tranquilli. Le abbiamo scartate tutte, per non sbagliare, e le certezze, poche e fidate, ci tengono compagnia, un cerchio selezionato che tutti ci cinge e rassicura. Certi che chi viene scartato dalle fabbriche non saremo noi, né dalle pensioni o dalle liquidazioni, e che nella media che ogni giorno consultiamo, noi avremo sempre il pollo intero ben saldo per le zampe. E poi, di sicuro, le zampe le scartiamo.
C’è poi chi di scarti ci vive. Moltitudini intere, ci mostra la tv, cose da non vedere, che allora la paura davvero può arrivare. Ottocentomilioni, ufficiali, li hanno contati. Come li potremo contenere se la furia loro dilaga, le coste nostre sono infinite, gli eserciti ormai esangui e le parole umane quasi scordate?
Pietre scartate saranno le testate d’angolo del nostro futuro. E che la loro umanità sopravanzi la nostra e ci perdoni.

Avvenire, 7 giugno 2012

sottolineature

Capita di tutto al mondo. Si deve ben decidere ogni giorno cosa evidenziare. Non si può fissare ogni stormir di foglia. I ragazzi a scuola lo sanno: imparato da soli o addirittura insegnato. Prendono il testo nella sua uniforme linda omogeneità ed evidenziano in giallo quel che è essenziale, in rosa quel che è accessorio, in rosso le date da mandare a memoria.
Bianco è l’inutile.
Vale a dire lo scorrere del tempo fra un evento e l’altro, il ragionare di cause ed effetti, il filo sottile delle parentele letterarie e familiari, che fan diventare quel che siamo, noi e i grandi che studiamo. E poi la vita materiale, le divagazioni sul mutare dei costumi, e della poetica, le colture, le case, il cibo, il lavoro, il posto delle donne. Tutto bianco, si può saltare. Un poco si salva il gossip, colorato di rosa-accessorio e a volte anche con gusto: le petit Lever du Roi, gli amori infelici dei poeti. Qualcosa su cui sospirare.
Così nella vita nostra.
Ad essere distratti, ci si trova già belli sottolineati. Senza nessuna storia, che ingombra la memoria. Solo effetti, perché le cause non sono da studiare, basta il gesto “che mi viene”, la parola del momento.
La bellezza di pagine non sottolineate, libri da poter prestare, e anche regalare.

Avvenire, 6 giugno 2012

porte

Negli incubi succede che sono tante, tutte chiuse, e la salvezza sta nell’aprire quella giusta, se c’è.
Uguale alle altre, inesplorata allo stesso modo. E così si cerca un segno. Vogliamo un segno, come nella vita: se mi telefona, se supero il concorso, se trovo il posto al parcheggio, se l’analisi è negativa. Poi non basta. I segni non bastano mai, nel sonno e nella vita.
Negli incubi spesso si corre, inseguiti da noi stessi che dormiamo o da chissà quale apparizione, e a volte una di quelle porte si spalanca al nostro fianco, il sollievo di qualcuno che ha deciso finalmente per noi, o ci affidiamo al caso e ne apriamo una, spalancata in corsa, e non abbiamo il tempo di sapere quel che facciamo. Nel sonno e nella vita.
E si cade, un precipitare atteso da sempre. La paura ci è vicina nella vita e nel sonno, e non c’è scampo. Si cade, si cade, agitando braccia e gambe, muoversi inutile, gridare senza suono, e chi mai ha messo le porte? Trabocchetti al nostro desiderio. Di andare, e non sapere dove, eppure volere, dovere, perché fermi si muore.
E poi forse solo cadendo fino in fondo e nel cadere ad occhi finalmente aperti ci si scopre a casa nel letto, sulla chaise longue in giardino, in spiaggia a vedere il vicino e a dire: «È bello il giorno oggi, e sembra anche nuovo».

Avvenire, 5 giugno 2012

ombre

Capita di dover vivere con un’ombra che ci precede nel nostro andare, sempre. È la ferita che non si lascia dimenticare. Spesso la conosciamo, con il suo corredo di gesti subiti, parole precise, odori che non si disperdono più.
A volte invece può venire da lontano e noi nemmeno lo sappiamo. È un segreto di famiglia, protetto col silenzio, perché non faccia male ai bambini, che arrivano alle spalle in un frullare di passi senza quasi muovere l’aria e subito si deve tacere.
Ma c’è sempre il giorno in cui ci sfiora quasi senza peso la parola sfuggita, e spariglia l’ordine dei nostri anni. E improvvisamente sappiamo di esistere da prima di essere nati, perché un abbandono antico di due generazioni ci dà quel soprassalto nella notte, e ci muove i piedini verso il letto grande, a contare se tutti e due son lì, a rimediare oggi al partire di allora. Oppure, una povertà che non sappiamo rappresentare ci attraversa e vogliamo penne, colori, quaderni e libri che qualcuno lontano ha solo sognato. E vestiti anche.
Oppure finalmente scopriamo, per esteso e per minuto, da dove arriva la malinconia che ci è compagna, e la guardiamo con una dolcezza nuova, perché non è tutta nostra, e ci sembra più leggera.
Rinascere non ci è dato, ma esser parte di una storia ci dà un posto in cui trovar riposo.

Avvenire, 3 giugno 2012