nomi

Nessun nome nostro è solo nostro.
Alcuni nomi portano naturalmente e con grazia la memoria di un nonno, a volte uno stormo intero di antenati, e insieme l’eredità di un corpo che è stato: gli occhi blu malandrino di un bisavolo, le dita eleganti di un nonno, il ciuffo ostinato di uno zio.
Altri nomi tengono il capo di un filo di storie che non si lasciano dimenticare. Una santa poverella fatta grande dal suo credere e qualcosa di quel mistero sentiamo di portarlo. Oppure un re col suo corteo di guerre, e forse il nostro arco sempre teso è un ricordo del suo combattere. O sono storie di famiglia, un bisavolo impettito nel ritratto della leva, una nonna di cui sappiamo la grafia limpida come la traccia di una cometa e vien voglia di riordinare il mondo.
Altri nomi ancora portano un dolore dentro e a volte lo curano come un regalo che non si aspetta. Un nostro affetto è partito troppo presto, una vita nuova ci fa rinascere al domani e il nome è il tempo che si mescola all’eterno.
Certo veniamo da lontano e non è strano sentirsi un po’ abitati, forse anche accompagnati. Ma quando oggi il nostro nome viene chiamato, siamo noi che rispondiamo.
Ogni nostro nome è solo nostro per quel frammento di eternità nel quale ci appartiene.

Avvenire, 12 giugno 2012

specchi

Forse conoscono le nostre brame, ma di certo sono più esperti di paure.
Sono dappertutto: in camera, e ci sta, in bagno, e ancora va bene, in atrio, in salotto, dentro l’anta dell’armadio, dietro la porta del garage, in ascensore, in auto sul tergisole e quasi ci si scaravolta, negli astucci delle ragazze a scuola, e dei ragazzi per equità, e poi in borsa, in corsa sul tram dell’università, e nel cassetto del lavoro, e poi smilzo e stretto sul retro del rossetto, e della copertina dura di un diario, ancora di scuola, e nello zainetto, dove spenzola al passo, riflettendo a volte il cielo a volte la terra. Tutti lì a guardarsi, un vedersi senza gioia. Pauroso moltiplicarsi di un sé giovane e adulto e sempre più adulto e poi vecchio che non trova pace.
Un guardar solo se stessi. Il mondo intorno scorre, entra ed esce dal nostro vedere riflesso, ora un passante, talvolta un amante, più a lungo un figlio se viene. A tutto dar le spalle, senza parer di volere e come fosse normale.
E quel che appare e scompare alla fine è solo virtuale. È per me infine lo specchio, per la mia vita così curata, evitata, detestata, solo in frammento sentita.
Se gli specchi si rompono si parla di maledizione. Ma è più vero che si tratta di una liberazione. Cadono in terra e così finalmente il cielo lo vediamo.

Avvenire, 10 giugno 2012

angoli

Ai bambini piacciono, e c’è il buon motivo. Vivere il mondo dal basso ha i suoi pericoli e a poche spanne dal pavimento il muoversi sicuro di chi intanto è grande e briga, con l’indifferenza di chi crede di ben sapere il proprio potere, suscita un corteo di sentimenti incerti. Tutti confusi nella mente piccina e se la paura di non valere è potente, le spalle al muro permettono almeno il sognare, che ci porta a volteggiare, sopra i grandi che non ci vedono, punto nero in fondo all’occhio loro, alto volare nel nostro cielo per noi.
Però si deve conoscere il giorno del nostro solenne entrare nella vita intera, agile muoversi nel centro degli affetti, chiamati, voluti, cercati quando ci siamo nascosti, e persi, perdonati, abbracciati, addormentati, sfiniti di corse e di paure, visti alla fine e al principio visti, ci siamo, grazie al cielo, a voi, a tutti noi, per tutti ci siamo e ora giustamente austere angoliere hanno preso il nostro posto, con il corredo ben posato di foto autorizzate, che raccontano la nostra vita intera. Fuori, al centro della stanza e altrove.
Questo ci dice l’amico che si china:
«Dall’angolo si può partire, e ogni tanto ci puoi ritornare, ma in mezzo alla vita bisogna andare».

Avvenire, 9 giugno 2012

ricordi

Ci sono ricordi troppo grossi, che occupano tutta la testa e trovano presto la strada per arrivare alla gola e sul principio semplicemente non abbiamo più potuto pensare, poi un poco alla volta cominciamo anche a non respirare.
È l’amore che non c’è più, partito o scappato, del tutto svanito.
Così svanito che forse non è mai esistito e il dubbio è più cattivo del dolore. E dei rimpianti, per non aver detto quel che sentivamo, nel tempo che si lasciava contare con i minuti e i secondi e i giorni sorgevano e tramontavano con durate quasi uguali. Adesso questo passare di stanze trapuntate tutte di ricordi aguzzi che tagliano l’anima restituisce un tempo così indifferente al nostro misurare che ci si chiede di quale marmo sia fabbricato.
Ed è già notte quando si capisce che il giorno è andato e intanto non lo abbiamo vissuto, e non ci sarà mai più il sollievo allegro di gratitudine per i rumori che lo riportano a casa, amore questa volta rubato ancora giovane, indecente sottrarre al nostro accudire, dopo averlo generato. Un altro ricordare che non si può nemmeno sfiorare.
Eppure, anche soli, nei silenzi offerti al divino eterno ascoltare, da un nostro luogo di luce arrivata, viene un esser grati, per quel tanto che si è avuto e con noi rimane.

Avvenire, 8 giugno 2012