stranieri

Vederci di tanto in tanto con occhi stranieri è una grazia.
Vedere l’acqua che esce facile dai rubinetti, acqua benedetta e la buttiamo la santa domenica a lavare i nostri pneumatici insieme alle coscienze sciatte che ci comandano.
E vedere le case che sono nostre, e se la cupidigia non ci divora, sono sicure e non ci schiantano al primo rabbrividire della terra.
Poter poi camminare nelle città, a fronte alta se vogliamo e con un nome pronto da dichiarare. Lo pronunciamo una sola volta, e viene riconosciuto.
E i figli. I nostri figli, che facciamo studiare, come deve essere, e hanno zaini e vestiti, e li portiamo in corsa al conservatorio o in piscina, quanta acqua!, e ci preoccupiamo che scelgano, economia, medicina o archeologia, come deve essere, e non sappiamo lo sgomento e insieme l’orrore di stringerli in braccio leggeri leggeri, quasi stritolati dalla pena di chi non può nulla per loro, che almeno dormano e non sentano la fame, perché non si sa dove cercare il pane.
E poi l’assurdo nostro ridicolo correre strizzati in un tempo che intanto va con il suo bel passo regolare, pronto al ritmo del nostro piacere se solo lo volessimo, e invece dannato al nostro scappare, da tutti, da noi, dalla vita.
Sì, è una grazia essere stranieri per quel che serve a vederci.

Avvenire, 16 giugno 2012

crepe

La terra a volte si apre istantanea. Se capita è un dramma. Esce il fuoco, sprofonda il mondo e porta con sé anime sorprese, impreparate all’improvviso eterno andare.
I crepacci danno meno allarmi, son lì da tanto, si possono addirittura guardare, ma bisogna che qualcuno ce li abbia insegnati. Poi si può camminare. Insieme o da soli, sapere ci fa scampare.
Se le crepe son dei muri, lì c’è una storia da raccontare, e il danno si può riparare, con i ricordi o con le parole, e spesso ci vogliono anche le mani.
E a stringerle, forti e a volte spaccate, si sente tutto intero quello che hanno vissuto, e vien voglia di lisciarle, come le pieghe di un letto insieme disfatto.
Poi sappiamo di metafore, e le crepe nei rapporti buttano più sangue di una ferita d’accetta. E si crede che sia finita, mai più per noi le ore allegre delle attese.
Allora che si fa?
Poi guardiamo un giorno chiaro e vediamo con l’anima, sì, ancora sorpresa, che nelle crepe crescono l’alisso delicato, l’arabide immacolata, l’artemisia d’oro, la rossa valeriana. E l’ombelico di venere, mille felci abbarbicate, e anche i capperi, e chissà come, spesso, le loro crepe son di mura di castelli. Altre storie da ascoltare. Lunghe, tenaci e vive. A volerle raccontare.

Avvenire, 15 giugno 2012

pazzi

C’è stato un tempo in cui i pazzi eran tutti indemoniati. Un bel massimalismo che ci semplificava, un piccolo esorcismo e qualche volta funzionava.
Adesso graziealcielo abbiamo studiato e fra una riga e l’altra del giornale che ci porta il nostro male, troviamo tante definizioni, che sono anche assoluzioni: c’è chi ha violentato, ma era stressato, chi ha deriso, fatto il bullo e anche ucciso, ma era un narciso, ed è una malattia, e lo sappiamo già dal mito, che può anche portarci via.
Poi c’è chi ha le allucinazioni, oppure le visioni, i disturbi dell’umore e le millemila fobie, e oggi, con tutto che siamo, stipati di informazioni, si moltiplicano le ipocondrie.
Finché un giorno, ad occhi bene aperti, ci si scopre un poco umani nello specchio di chi vediamo, e allora un sussulto da notizia ci fa pensare che certamente le infermità ci possono rubare, ma che il male è male e si deve credere che la terra in cui si nasce la si può infine bonificare: il disprezzo del diverso, che si può volendo chiamare fratello, il nostro solitario arrampicare, e il voler brillare, e l’aver paura. Di chiamare peccato quello che ci divide e ci divora. Peccato contro l’uomo e contro Dio che vi dimora.

Avvenire, 14 giugno 2012

angeli

L’esser di moda li ha turbati. Tirati ora di qua e ora di là, quasi spiumati come margherite a cui si chiede mi ama o mi amerà.
Tutto il chiasso che si fa quaggiù, chissà se li ha distratti un po’ da chi li ha voluti, lassù. Voce di cura, che non si lascia certo confondere, ma se si vuol credere che ci si somigli, è meglio evitare il troppo interrogare.
Vanno e vengono come le nuvole chiare, senza mappa in cielo come in terra. Il loro è un far la ronda, con in fondo al cuore un piccolo, sospeso, fulgore. Affetto che brucia e non può restar segreto, come gli amori, come i nostri amori.
A bene ascoltare, li si sente vegliare, e a volte anche correre in grande affanno. E se non arrivano in tempo, anche un po’ singhiozzare. Chissà. Troppo stanchi per volare. Forse qualcuno è in ritardo perché aveva bisogno di dormire.
C’è chi non ci crede, anche fra quelli che li appendono ai muri e li collezionano in ceramica.
Ma senza di loro niente Annunciazione, né salvezza in Egitto per la famiglia divina, e chi avrebbe mangiato sotto l’albero con Abramo?
Siamo certo liberi di dubitare, ma come si legge nel libro di Tobia, sarà bello poi scoprire, fosse solo alla fine della vita, che uno degli arcangeli ci ha accompagnati, e che anche noi per gli altri un po’ arcangeli siamo stati.

Avvenire, 13 giugno 2012