l’illusione della severità

 

Una piccola inquietudine da notizia può venire: i giornali raccontano che la scuola ricomincia a bocciare i bambini di prima elementare, che l’Invalsi propone prove difficili di matematica in terza media, che all’esame di maturità arriva un Aristotele spiazzante.

Ci si chiede se sia l’effetto di una qualche maggiore severità, promessa o minacciata a seconda del proprio vedere.

Certo che no. Il ministero dell’Istruzione attraverso il suo rapporto annuale “La scuola in cifre” ci dice che negli ultimi due anni scolastici monitorati (2009/2010 e 2010/2011) sono aumentati sia gli studenti ammessi all’esame di terza media (dal 95,4 al 95,9 per cento) sia gli studenti poi diplomati (dal 99,5 al 99,6 per cento). Un aumento si è verificato anche per la maturità (dal 94,1 al 94,4 per cento di ammessi e dal 98,1 al 98,3 di diplomati). In entrambi i casi poi sono aumentate considerevolmente le votazioni alte (+1,4 per cento sia i nove che i dieci) e l’esito finale con la lode (+0,8 per cento). Negli anni intermedi di entrambi i cicli sono diminuite le bocciature e diminuiti anche, per le superiori, i ragazzi con “giudizio sospeso”, ovvero quelli che devono a fine estate superare una prova di recupero in alcune discipline. Poiché i dati delle medie riportano un’inversione di tendenza netta rispetto ai cinque anni precedenti, quando le ammissioni all’esame erano in costante calo (-2,2 per cento dal 2005), vien chiedersi cosa sia rimasto del più imponente tentativo di “ritornare alla scuola del merito” che ha occupato per mesi i giornali e le televisioni durante il precedente governo. I cambiamenti sono stati presentati come l’azione salvifica di fronte al baratro in cui la scuola era scivolata con un impatto demagogico contundente: il voto di condotta entrava a far parte della media complessiva dei voti dello studente, e l’accesso agli esami di Stato (medie e superiori) veniva consentito solo a chi avesse la sufficienza in tutte le discipline. La prima norma ha ottenuto il risultato, scontato, di alzare la media di gran parte degli studenti perché, grazie al cielo, in generale gli studenti corretti sono ben più di quelli indisciplinati e se un ragazzo non disturba, segue moderatamente le lezioni e un po’ interviene, un otto o un nove in condotta lo prende.

La seconda, e anche questo era ben prevedibile, è diventata nei fatti una licenza a dichiarare per necessità il falso perché non si può far ripetere un ragazzo per due (forse anche tre) discipline, lo vietano il buonsenso e un’altra norma che chiede “insufficienze gravi e diffuse” per poter bocciare, e un qualsiasi TAR lo riconoscerebbe, e quindi con “voto di consiglio” si scrivono nelle pagelle dei “sei” che non dicono la verità sulla preparazione dello studente. E in più, alle superiori questi sei non veritieri contribuiscono a costruire il credito scolasticoe il punteggio dell’esame finale. Doppiamente sbagliato e anche ingiusto.

Solo in una scuola superiore che funzionasse, come accade per l’università, con un sistema perfetto di crediti, un meccanismo di questo tipo avrebbe senso. Ma non è così, perché nell’ordinamento italiano si ripete l’anno scolastico intero, con tutto il suo corredo di discipline, non solo la disciplina insufficiente. E infatti, dove si è potuto grazie all’autonomia non recepire queste norme, lo si è ha fatto: in Trentino il voto sulle “capacità relazionali”, così viene chiamata la condotta, non fa media e agli esami di stato di medie e superiori si accede con la media complessivamente sufficiente, e così le commissioni d’esame possono vedere nella trasparenza dei voti realmente dati quali sono le lacune vere di uno studente. Non è cosa da poco, perché si tratta di far vivere ai ragazzi proprio dentro la scuola quella giustizia che hanno assoluto bisogno di credere possibile nella vita.

La scuola non è oggi più severa.

Quel che capita ci racconta qualcosa che va ascoltato. Ad esempio che non ce la può fare se non si decide bene quel che si vuole da lei. Nel tempo, un po’ alla volta, alla scuola è stato chiesto di tutto. Dal patentino per il motociclo all’accesso alla Normale. In mezzo c’è la custodia lunga dei figli, primae dopo l’orario scolastico (le scuole private fanno la loro fortuna in parte anche su questo), la sorveglianza psicologica, il pronto intervento pedagogico, le certificazioni linguistiche, il patentino per il computer, l’organizzazione degli stage nelle aziende, la certificazione delle competenze. Qualcosa di tutto questo ci sta, è assolutamente pertinente.

Ma pensare che risorse di tempo e di personale siano impiegate nell’organizzare la preparazione per il patentino del motociclo è davvero bizzarro. E la legge fa obbligo alle scuole di offrire anche questo, al pomeriggio (20 ore fino allo scorso anno, 13 da quest’anno) e le famiglie lo chiedono, perché a scuola i corsi sono gratuiti, nelle autoscuole no. Allora capita che nell’inseguire il tutto di quel che è indistintamente dovuto, non sia possibile tener gli occhi ben fissi su quel che davvero conta.

Le prove Invalsi hanno un’ambizione giusta (al di là poi delle scelte precise di testi e problemi). Sul modello delle indagini internazionali OCSE-PISA, vogliono verificare le competenze degli studenti in uscita dalla scuola media. Il lavorare sulle competenze ci è richiesto dall’Europa, dal mondo del lavoro e della ricerca, che vorticosamente frulla i saperi tradizionali, dalla vita di oggi. Le prove Invalsi sono un tentativo di riforma del modo di insegnare e programmare a partire alla fine, dalla verifica. Se le prove son così, qualcosa dell’insegnamento deve cambiare. Lo stesso meccanismo che nel 1999 è stato messo in atto per le nuove tipologie di scrittura richieste dall’esame di maturità. Una riforma che ha indotto gli insegnanti a lavorare diversamente. Non suona bene, si può dire. Perché non lavorare diversamente grazie alla formazione degli insegnanti, all’aggiornamento? Ad esempio perché quest’anno per la formazione in servizio il Ministero ha stanziato 18,75 euro per insegnante. Per tutto l’anno. Poi perché in Italia la formazione in servizio non è un obbligo e di solito “la fa chi non ne ha bisogno”, ha detto poco fa a un incontro pubblico Giovanni Biondi, capo dipartimento del Ministero dell’istruzione nel mentre che forniva queste cifre.

Ma in Trentino è un obbligo, ad esempio, sta nel contratto collettivo provinciale,e quindi cambiare si può, vien da dire. È difficile immaginare un lavoro che richieda continuamente di ricrearsi come quello dell’insegnante. In classe arriva il mondo, sempre nuovo perché è il mondo dei ragazzi. Se non si cambia non funziona nulla.

Certo, ci sono riforme che costano, e si dovrebbe avere abbastanza fiducia da credere che valga la pena di investire ancora nella scuola, perché vuol dire che un futuro c’è, riusciamoa rappresentarcelo.E allora, almeno, far davvero sparire le classi sovraffollate. Semplicemente perché, soprattutto nel primo ciclo, è impossibile seguire tutti i bambini se ne abbiamo trenta in classe,e chi resta indietro è di certo il povero: di cultura, di relazioni, di risorse economiche e sociali. Perché bocciare cinque bambini su cinquantanove in prima elementare non si può davvero.È una dichiarazione di impotenza della scuola pubblica che non ha saputo o potuto intervenire prima che tutto questo accadesse.

E ne devono essere capitate di cose durante l’anno. Vien da dire: rovesciamo il banco, prima di arrivarea questo. Condividiamo il problema: con i servizi, il comune, il ministero, i gruppi di volontariato. Inventiamo una rete. Alziamo la voce.

Ma ci sono anche riforme che non costano nulla. Tornare alla trasparenza del voto di ammissione agli esami eliminando il “sei necessario” non costa nulla, ad esempio.

Alleggerire la scuola di richieste improprie può costare poco poco.

La domanda vera è: “che cosa vogliamo dalla scuola?” E la risposta non può essere la lista della spesa, deve essere un numero definito di priorità. Che offra un’opportunità a chi la frequenta di essere riconosciuto nel proprio valore. Che riconosca le diverse intelligenze. Che dia gli strumenti per guardare al futuro confidando nelle proprie forze. Che coltivi la convivenza civile. La convivenza non è un capriccio di pochi idealisti. È esattamente il futuro di tutti. Che, almeno, non funzioni da moltiplicatore di disuguaglianza sociale, come accade oggi, così ci dicono le ricerche. Che non confonda serietà e selettività. Le indagini Ocse-Pisa, e anche i dati del Ministero, ci dicono che hanno risultati migliori le scuole che bocciano meno.

È alzando il livello generale che si ottengono le eccellenze. La scuola del merito è la scuola del rigore morale irriducibile, che non si rassegna a perdere ragazzi lungo la strada. Che continua a lavorare per una nostra vitaa lieto fine. Abbastanza lieto.

E niente più demagogia, davvero.
da La Repubblica2 luglio 2012, p. 35

Dieta mistica

Paradossale nell’età e nelle terre dell’opulenza il tempo speso a parlare di diete, a leggere libri di diete, ad acquistare “cibi senza” (grassi, zuccheri, calorie comunque) che costano più dei “cibi con”. A cercare la più “veloce”, a non temere dolori e allucinazioni. Diete-digiuno che ci seducono, parlano a qualcosa di profondo e insuperabile. Quanto tempo della nostra unica vita se ne va così?

In natura il digiuno non è una scelta. Può essere strategico: il letargo, per non disperdere le energie alla ricerca di cibo che d’inverno non c’è. Oppure necessario: si digiuna se non si trova di che mangiare. Oppure ancora è sintomo: non si mangia quando si sta male, nel corpo e nello spirito. E basta convivere con un animale da compagnia e lo si sa per certo che non solo di noi umani questo si può dire.

Anche se un po’ bisogna intenderci sui termini. Di certo tutti conosciamo l’inappetenza da dolore: inflitto, subito, temuto, pena d’amore. Solo per noi uomini il digiuno può esser scelta. A volte strumento, drammatico, di protesta: dalle suffragette che rifiutavano il cibo per affermare il diritto di voto, ai digiuni per i diritti civili nei nostri anni ancora così segnati dall’ingiustizia. Digiuno con valore politico e culturale e, spesso, strettamente cultuale, legato alla religione: nella forma attenuata dell’astensione da alcuni cibi oppure in forme più radicali che hanno attraversato anche la storia del cristianesimo portandosi appresso un sospetto di patologia.

Sì, perché il cibo è vita, benedizione, salute, ospitalità, allegria condivisa, dono di Dio, Dio stesso addirittura. Il profeta Ezechiele che mangia il rotolo della Parola è sia realtà dell’ uomo che assimila quel che Dio gli dà sia, visto dalla parte di Dio, un consegnarsi senza trattenere nulla di sé. Per questo gli ordini monastici e la tradizione della chiesa sono sempre stati prudenti sul digiuno. Gli eccessi erano sospettati di autocompiacimento, di un voler accampar meriti davanti a Dio. Oggi molte di quelle che chiamano diete somigliano a un laico, ostinato digiunare. Certo che la dieta non è un digiuno, in senso stretto. O almeno non dovrebbe esserlo. È un mangiar corretto. Come un mangiar corretto doveva essere quello di Adamo ed Eva. Tutto tranne il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Dieta di salute spirituale, molto prudente.

In realtà esercizio di fiducia in Dio: tutto bene è stato fatto nella creazione, possiamo fidarci di un divieto dal senso oscuro? La Bibbia è attraversata da cibi fatali. Se il frutto di Adamo ed Eva e il piatto di lenticchie di Esaù sono stati infausti, i pani e i pesci del Vangelo o la meravigliosa manna dell’ Antico Testamento, che si trovava al mattino nella misura giusta e non si poteva conservare per il giorno dopo, ci raccontano invece la bontà del cibo, vero e metaforico. La libertà di saper vivere il giorno che ci è dato nella fiducia di un pane che viene.

La dieta di oggi sembra il contrario, un digiuno appunto che è un giocar d’ anticipo per la paura del pane che non verrà. Forse perché non è venuto e temo che non verrà. Ho paurae allora lo rifiuto. Non verrà e allora non mi serve, angelo divento. Certo che nel parlare di cibo oggi si deve essere prudenti, perché anoressia e bulimia sono malattie vere, che devastano il corpo e lo spirito, se stessi e gli altri. Eppure, tutto intorno a questi abissi della malattia, c’è un collettivo “giocare con il pane” che, ci è stato detto fin da piccoli a tavola, non si fa, non si dovrebbe fare. Ma quale pane? Il pane-cibo o il pane-affetto? Se il primo affetto per tutti noi passa attraverso la cura del corpo, e attraverso il cibo che lo fa vivere, quando questo manca allora il rifiuto del cibo diventa insieme rifiuto del corpo e protesta, potere con cui punire chi il cibo non ha dato. O non abbastanza, senza colpa, o non nel momento giusto, per incapacità o impossibilità.

Forse qualcosa di quel che è capitato alle “sante anoressiche”, secondo l’ espressione di Rudolph Bell, può raccontarci un pezzo di noi. Il digiuno da “preghiera del corpo”, come era inteso dalla tradizione cristiana sia occidentale che orientale, diventa in loro un mezzo per esercitare il “potere attraverso il corpo”. Il controllo del corpo era una delle pochissime forme di potere in mano anche alle donne in un tempo di guerre sante e santi poteri maschili. E infatti sono soprattutto le donne a praticare l’ascesi del cibo nella storia passata, e anche recente: da S. Caterina da Siena (muore nel 1380) a Teresa Neumann (muore nel 1962, dopo aver vissuto per 35 anni di solo pane eucaristico). Una scelta che sfiora il sogno di anticipare, nel corpo fatto sottile quasi come l’ anima, la sua stessa incorruttibilità. Forse le donne lo conoscono per natura il potere del corpo. Che possono esser mangiate lo sanno da sempre. Esser cibo senza che sia una metafora. Lo sanno ben prima che il corpo lo insegni con la maternità. Il trattenersi dal cibo le sottraeva a questa storia scritta, sia nella realtà che nella metafora.

Anche oggi un sogno anoressico accompagna consapevolmente tanti giovanissimi e inconsapevolmente un po’ tutti, senza più guardare al genere. Le diete-digiuno che ammiccano dalle classifiche dei libri, dai reparti light dei supermercati, dalle vetrine tutte taglie-mini dei negozi, ci raccontano un desiderio ormai nostro. Forse ancora c’ entra il potere, che non sappiamo ben più dove risieda, ma certo non in noi. E c’ entra anche la fiducia, che non coltiviamo più, per paura. E certamente il corpo. Assillo presente oggi come nel medioevo. Una diversa, strumentale, malata, costruita e bugiarda devozione del corpo ci obbliga ancora. Corpo esibito, giudicato, rifatto, perfetto sennò rifiutato. Un’ossessione che ci rende giudicati e infelici. E allora forse proprio il corpo che ci occupa, invade l’ esistenza fino all’ ultimo interstizio, conquista il pensiero, ci impedisce la vita sociale, sempre visto con gli occhi degli altri e soppesato, non nostro, non alleato in quel che desideriamo, e noi a percepire ogni centimetro che deborda dalla cintura, dai pantaloni che pure vogliamo mettere stretti come tutti, proprio il corpo è il nemico. Un altro paradosso, e non solo del nostro oggi ma della vita tutta che è corpo in noi, di certo. Quale che sia la nostra speranza che ci porta oltre.

Così il tempo della dieta in forma di digiuno diventa un tempo del bisogno dei bisogni, quello dell’ affetto in forma di cibo, sentito potentemente e negato, per non sentirlo più un giorno. Fame d’ amore, di esser visti, amati, riconosciuti. Di potersi fidare e affidare a un futuro di pane che c’ è. La manna del credere. Ma se prevale la paura, ci resta allora il potere sul corpo. Pieni del proprio essere vuoti, nemici a se stessi per diventare forse finalmente amici, un giorno. Nella forma di una leggerezza sognata. E così, angeli diventiamo. Come le sante mistiche anoressiche. Leggerissimi da volare via.

Su La Repubblica.it, 28 giugno 2012

quelle domande impossibili ai ragazzi di terza media

Qualcosa di minuscolo. Minuscolo rispetto alla battaglia che si combatte ormai ogni anno prima-durante-dopo le prove Invalsi, soprattutto quelle di terza media, la cosiddetta quarta prova (Prova nazionale per l’Esame di stato della scuola secondaria di primo grado: un po’ borboniche e spagnoleggianti le parole dell’ufficialità, forse su questo si può essere tutti d’accordo).

Non si parla qui dell’opportunità: è davvero difficile sostenere che non sia opportuna, utile, assolutamente necessaria una valutazione nazionale, condivisa, degli apprendimenti che ci restituisca un’immagine di quel che la scuola fa. Valutazione e non giudizio. Che tenga conto dei contesti, dei mezzi, del valore aggiunto, che serva a portare risorse al posto giusto, ovvero dove ci son maestre e professori che fanno miracoli col nulla che hanno a disposizione, e non dove i risultati sono già garantiti dal contesto sociale degli studenti.

Non si parla quindi di prove Invalsi in generale. Solo delle parole. Quelle che i ragazzi di terza media hanno trovato sulla loro prova Invalsi di italiano lunedì scorso. Un racconto di Carlo Castellaneta: bello, malinconico, drammatico, tragico. Un signore “vecchio” e solissimo, “senza moglie né figli né fratelli” pensa di voler vendere la sua collezione di francobolli, una raccolta accumulata con pazienza nel suo esistere solitario.

Mette un’inserzione. Improvvisamente tante persone, nella forma di tante telefonate di potenziali acquirenti, irrompono nel suo appartamento silenzioso. Scopre di non voler vendere la collezione, ma di volere invece quel mondo di bizzarri rapporti che somigliano alla vita che non ha vissuto. Così dopo un po’ mette un’altra inserzione e poi un’altra, per oggetti che non ha e che quindi non potrà vendere. Ma non importa, perché le telefonate arrivano e gli fanno compagnia. Sorride anche, qualche volta. Finché il silenzio ritorna improvviso nell’appartamento. Quando la polizia entra, chiamata dai vicini, lo trova senza vita. La casa sottosopra. “Vendo brillante di inestimabile valore…” è stata la sua ultima inserzione. Le domande della prova Invalsi verificano la comprensione del testo. Certo le domande sembrano “neutre”. Però.

Una chiede se il protagonista nel passato era stato “solo” o “indifferente” verso i suoi colleghi di lavoro, oppure se “rimpiange” quei rapporti, oppure se erano rapporti “conflittuali”. Poiché nel testo “indifferenti” sono detti i suoi colleghi, si deve stare attenti a non cadere nel trabocchetto delle parole. Non conta che nella vita l’indifferenza sia spesso risposta a indifferenza. Il conflitto a conflitto.
Un’altra domanda chiede se il tema centrale del testo sia “la solitudine” oppure “la fragilità umana” oppure “la noia” oppure “l’avarizia”. “La solitudine” è la risposta corretta. Anche la fragilità, verrebbe da dire. E forse la noia di una vita vuota gioca un ruolo anche lei. Sappiamo di cosa è capace un adolescente annoiato. La cronaca ce lo racconta.

Un’altra domanda chiede di che cosa è davvero vittima il protagonista: della “cattiveria del prossimo” oppure del “meccanismo che lui stesso ha messo in atto”? Del meccanismo, è la risposta corretta secondo la “maschera” Invalsi (si chiama proprio così, è la schermata su cui si caricano a video le risposte di ciascun ragazzo sul sito). E nella logica interna del racconto può certo essere vero. Ma se questa è una storia “verosimile”, come ci dice la risposta corretta a un’altra domanda appena sotto, allora di certo non c’è paragone fra il piccolo male di far perdere un po’ di tempo al prossimo con inserzioni bugiarde, e l’immenso male di una vita uccisa per denaro.

C’è un’ellissi non colmata, nel racconto, ovvero qualcosa che non è scritto e i ragazzi devono intuire. E infatti c’è la domanda: cosa non viene raccontato? “Furto” e “uccisione” sono le parole che permettono di considerare la risposta corretta.

Più avanti ci sono le parole dell’analisi grammaticale e linguistica, più neutre forse: “Se questa mattina non ci fosse così tanto traffico andrei a scuola in bicicletta” e ancora “Giovanni, correndo in bicicletta su una strada dissestata è caduto perché si è fatto molto male”. In questo secondo caso si deve trovare la parola sbagliata, che, naturalmente è “perché”. Anche “strada dissestata”, verrebbe da dire. E, non era richiesto, ma anche il “traffico” della frase precedente è sbagliato, nella vita.

Ma qui “si verificano abilità linguistiche”. Sarà importante sapere cosa hanno risposto i ragazzi alla domanda sul protagonista del racconto di Castellaneta. Se il bon ton involontariamente compiacente verso quel che ci si aspetta da loro li ha portati a dire che il male che abbiamo ce lo cerchiamo, con l’uscir di notte a passeggiare, o i con i vestiti troppo stretti, o con un malinconico gioco di vecchiaia, oppure se a quattordici anni ha per un momento prevalso la vita desiderata e hanno risposto una risposta non corretta, cioè che è la cattiveria, la cattiveria umana il vero problema. E questa va combattuta, perché si può fare, bisogna dirlo, anche grazie a parole che a noi e a loro ricordino che la vita non è tutta così, che si può cambiare. Loro certamente la possono cambiare.

L’ultima domanda della prova Invalsi era una voce di dizionario da analizzare. Quest’anno la parola scelta è stata “guerra”.

Da La Repubblica, 20 giugno 2012

orme

Tornare indietro sulle orme di tutti i passi di chi abbiamo incrociato e cercare dove ci siamo abbandonati o persi e non poter ricordare perché. C’era un amore, e i figli erano bambini, questo mi raccontano orme piccole e leggere, che a intervalli spariscono. In braccio i piedini pattinano l’aria e non lasciano segni.
Poi troviamo orme che si allontanano e lo abbiamo lasciato accadere e qualche volta ce ne siamo andati noi, per curiosità, per libertà, per necessità. Per incapacità.
O forse è arrivata una bufera, ci ha dispersi e abbiamo pensato che fosse per sempre, e non ci siamo cercati. Bufera di dolori, di rancori, forse coltivati, per nasconderci la pena di non vedere il nostro bene, contrada stretta, con poche orme a far da guida.
A volte la bufera è stata di altri amori. Una nuova strada, trovata oppure solo immaginata, e come potevamo sapere che presto i passi sarebbero stati un errare di qua e di là, e che paura, non saper tornare.
Ma è bello nel pensiero di una sera chiara, dopo il giorno inquieto oppure abbagliato, con gli occhi cercare fin molto lontano le orme di quanti ci hanno dato, amato o anche appena sopportato. Ci hanno permesso di essere quel che siamo.
E così più liberi andare verso tutto quel che ancora noi possiamo.

Avvenire, 17 giugno 2012