una storia quasi perfetta

Quante volte può ricominciare la propria vita?
C’è una donna che l’ha già fatto una volta, ha conosciuto il malamore nel cerchio stretto del seduttore, ma è un’artista e sa la bellezza delle cose e la ritrova nei disegni opera delle sue mani. Un uomo la accompagna. Lei è un regalo e lui vuol farla volare, dice. Che il mondo sappia la sua arte. Può essere il ritratto di un amore perfetto oppure la storia infinitamente ripetuta del perverso e della sua vittima.
Il mondo intorno è immobile. E’ la provincia pessima della chiacchiera, che spiuma la verità e la sparge dai poggioli dei palazzi. Tutti a vedere. Tutti preparati a dire che si sapeva che sarebbe finita così. Ma l’inganno ha tante maschere e anche gli angeli a volte sanno tirar di fioretto e anche scherzare.

La parola

da L’Osservatore Romano, 28 gennaio 2016

di Giulia Galeotti

“Me lo ha raccontato tante volte mia madre.
A me bambina che non sapevo capire. E forse per capire ho dovuto vivere come lei l’inganno, nel corpo perché c’è un capire con il corpo e non ci sono scorciatoie possibili. Lei raccontava. So che non ti salverà prima, diceva, ma ti aiuterà dopo.

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Un solco è stato il suo racconto. Un solco da percorrere. Sentire tutto il suo dolore di donna ingannata e lasciata precipitare prima che potesse vedere il suo giorno è stato per me un atto d’amore.”
Come già avvenuto nei precedenti libri della scrittrice, anche nel nuovo romanzo di Mariapia Veladiano, Una storia quasi perfetta (Milano, Guanda 2016, pagine 237, euro 17,50), le domande sono profonde. Quelle domande che governano le relazioni affettive e familiari, dalla cui risposta emerge il senso che decidiamo di dare al cammino.
La trama parrebbe semplice: l’eterno duello tra seduttore e sedotta. Lui, proprietario di una vincente azienda di moda, alle prese con una vittima leggermente più difficile da conquistare; lei, artista dotata e bellissima preda, finita ignara nella tana del lupo. Ma il riassunto è fallace.
Perché lui, il seduttore — il punto di vista da cui muove il lettore addentrandosi nel romanzo — a noi pare in realtà quasi un non personaggio. Non ha nome. Non ha una vera voce. Non ha quasi identità: ha solo il fascino che emana, e che sa di emanare. Bianca, invece, è un personaggio completo. Completo nel suo non essere un’eroina, a tratti fastidiosamente cieca davanti alla ragnatela della seduzione («Non rispose e Bianca scambiò il silenzio per partecipazione»). Eppure, come
emergerà pagina dopo pagina, è in realtà una donna che ha in mano le sue scelte. Sbanda un po’, ma chi non sbanda non è reale. Bianca invece si tuffa, lei così amante dell’acqua, e si rituffa di nuovo, anche se sa — o crede di sapere — che potrebbe esserle fatale. La sproporzione tra i due aumenta, man mano che la storia procede.
E non perché lui sia il vincente e lei la sconfitta, ma perché lui perde sempre più consistenza, mentre lei acquista in complessità. La differenza emerge dalle piccole, e dalle grandi cose. Nella relazione con Venezia, ad esempio, città dai molti volti: perché c’è la Venezia che vedono tanti, e quella che si rivela a pochi; quella che assorda, e quella che chiede di essere ascoltata. Per Bianca, è la vita; per lui, l’insofferenza e la distanza affettiva.
Bianca cresce, dunque. Ma, come già avvenuto negli altri romanzi di Veladiano, non cresce da sola. Ha il ricordo della sua vita; ha il presente della sua tela di relazioni; ha una mano, inaspettata, che le si avvicina.
Perché mentre la provincia osserva immobile e pettegola l’appropinquarsi della catastrofe, con un senso — in molti — di malcelata soddisfazione, la vicenda prenderà una direzione inattesa grazie a un’altra donna, Giulia, in apparenza la più anonima tra le figure che popolano lo studio di moda del seduttore, quella entrata con velleità artistiche ma assunta per le sue capacità di giurista.
Alla galleria di madri che popolano le pagine di Mariapia Veladiano — dalla mamma di Rebecca (La vita accanto) a Ildegarda (Il tempo è un Dio breve), passando per Maddalena o la zia Marguerite — Una storia quasi perfetta aggiunge Bianca.
Tenace e viva nella sua relazione con Gabriele («Mio figlio mi ha restituito a me stessa, semplicemente. L’ho sentito più grande del mio dolore. Ho sentito il suo diritto alla vita, quella possibile»), grazie a un’eredità granitica, ma sussurrata
(«Poi sua madre aveva concluso così piano che forse lei lo aveva sognato: “Tu sei la luce, tu sei il regalo”»). Perché nell’essere madri, un ruolo cruciale lo ha — nel bene e nel male — la madre che si è avuta.
E se i personaggi minori sono (come sempre) rappresentati con maestria, anche in questo romanzo un posto d’onore lo ha l’uso delle parole. Si conferma infatti la cura di Veladiano per ogni singolo termine, per il loro senso e suono.
Questa volta, però, Una storia quasi perfetta ci lancia un avvertimento.
Perché la vera arma del seduttore sta proprio qui: «Tutto il suo potere era affidato alla parola». Lui, capace di cogliere subito quelle che con la vittima di turno vanno evitate («Registrò di bandire talento e luminoso dal suo vocabolario») e
quelle su cui, invece, è importante investire (e sarà il piccolo Gabriele, figlio di Bianca, a sbeffeggiarlo e smascherarlo in questo). Le parole come potere. Come arma.
Eppure Bianca sembra non accorgersene. Ma mai fidarsi di una donna dal nome candido che sa cogliere la vera essenza dei colori. «“La verità è quando non hai paura” rispose Bianca alla domanda ormai lontana».

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Fonte: L’Osservatore romano

Un Don Giovanni in fuga dall’amore

da La Repubblica, 29 gennaio 2016

di Leonetta Bentivoglio

 

Formatasi come teologa e insegnante, Mariapia Veladiano è una scrittrice “di maniera”, nel senso che plasma il suo linguaggio in un continuo artificio, scansando la naturalezza del discorso. Ora gioca sull’assemblarsi di due o più parole in una sola, per esempio inventando avverbi come “chissadove” o locuzioni tipo “cielobenedetto”; ora adotta termini inusuali e giri di frase ritmicamente anomali. Un manierismo che non consente al lettore di specchiarsi nei personaggi, instaurando una sorta di diaframma estetico che può piacere o disturbare.

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Nel suo nuovo romanzo, Una storia quasi perfetta (primo pubblicato con Guanda), il registro formalistico si accentua, forse perché l’ambientazione sceglie un mondo, quello della moda, basato su “rivestimenti” e lontano dal vigore etico che attraversava i libri che l’hanno lanciata, dedicati a figure di emarginati e offesi (da La vita accanto a Il tempo è un dio breve). Cornice della trama è una Vicenza mai citata, ma riconoscibile nei luoghi e piena di silenzi, strati di passato, fantasie architettoniche ed equilibri palladiani. Nelle sue strade si muove il protagonista maschile, un dongiovanni chiamato sempre e solo “lui”, come una figura archetipica e quindi innominabile. Lui guida un’azienda di design per collezioni di vestiti, carte e oggetti, e le sue numerose amanti vanno e vengono occupandolo lungo periodi ragionevolmente limitati. Quando prendono troppo piede, il campione si dilegua. Sfugge per principio all’affettività. Aborrisce sentimenti intimi. E anche se può capitare che qualcuna perisca a causa del suo scarto aggressivo (sulla coscienza gli pesa il suicidio di una fidanzata dai nervi instabili), lui non trasforma mai il proprio schema.

A un tratto nella sua vita irrompe Bianca, bellissima e dotata di un talento straordinario nel riprodurre fiori. Ne disegna e dipinge un’immensa quantità, e la loro leggerezza multicolore invade la sua casa, narrata come un regno onirico e sontuosamente acquatico nei florilegi nutriti da sorgenti. Bianca incontra il seduttore per mostrargli le proprie opere, così pregiate da indurlo a offrirle un contratto. Scatta così la mutua infatuazione. Lei gli si dà con fiducia e interezza, mentre lui prende, usa, divora, abbatte, manipola e piega. Però stavolta rischia grosso, poiché la donna ha un carisma che lo cattura dentro un cerchio magico facendolo galleggiare in un’ipnotica liquidità. Non a caso le due centrali scene d’amore del racconto appartengono all’acqua. La prima scorre in una Venezia dove li sorprende un acquazzone, e Bianca lo trascina sui ponticelli in un clima da diluvio universale che minaccia le coriacee difese emotive di lui. La seconda si svolge nella piscina dove Bianca va a nuotare: lui la osserva dall’alto mentre sfreccia come una sirena, e assomiglia a un Ulisse ormai quasi privo di difese contro l’incanto delle sue gambe. Tuttavia non molla, da monolite di egoismo, evaporando nell’ennesima sparizione. Finché una svolta narrativa rivendicherà la forza inattesa di Bianca.

Tutto, a partire dai dialoghi, è così artefatto da confortare l’ipotesi di una parabola. Il piccolo Gabriele, figlio di Bianca, che è una madre single, si esprime in modo stravagante, affettato e assolutamente non credibile per un bambino. Sembra che Veladiano non cerchi alcun realismo, creando piuttosto la “maniera” della propria fiaba. Con un compiacimento della parola che emerge, per esempio, nelle liste delle specie di fiori. È un quadro insolito per la teologa-scrittrice, che qui si priva dei consueti afflati spirituali consegnandoci “semplicemente” un gioco sull’amore. Sfociante, come prevedibile, nella condanna di chi non sa provarlo.

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Un Don Giovanni in fuga dall’amore

Fonte: La Repubblica

Il Don Giovanni redento della Veladiano

da La Stampa – Tuttolibri, 30 gennaio 2016

di Lorenzo Mondo

 

«Una storia quasi perfetta», come si intitola questo romanzo di Mariapia Veladiano, può alludere a una narrazione che, nei suoi elementi portanti, si svolge tutta in chiaro, pienamente compiuta e che, in quanto tale, basta a se stessa. In essa, due sono i protagonisti di una arresa e conflittuale passione d’amore.

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Lui è il proprietario e l’animatore di un’azienda di design che produce collezioni di moda e oggettistica di qualità. Lei, Bianca, è insegnante di discipline pittoriche in un liceo. E un giorno capita inopinatamente nel suo studio per mostrargli una raccolta di mirabili disegni, ispirati ai fiori e creati fino ad allora per diletto. Affare fatto per quanto riguarda l’acquisto esclusivo dei disegni, mentre comincia, come di consueto, da parte dell’uomo il corteggiamento per l’affascinante detentrice di tanta bellezza.

Lui, mai designato con il suo nome (quasi a suggerire una connaturata disposizione alla frode) mette in gioco una consumata abilità di seduttore. Bianca dovrebbe starne al riparo, ha subito nell’adolescenza una brutta avventura, riscattata appena dalla nascita di un figlio. Ma cede infine, per un bisogno d’amore che, da rimedio alla solitudine, tende a sublimarsi in un soffio vitale che ispira ogni comportamento. L’amore come «confusione dei corpi, confusione con il mondo, l’universo. L’infinito».

Accade intanto che l’amante sia conquistato e messo a disagio dalla dirittura di Bianca, dalla sua limpida adesione ai concetti di umana condivisione, di nuda verità. Il rapporto così libero e disinibito con Bianca, così «perfetto» ai suoi occhi, tende a incrinarsi e corrompersi. Il seduttore teme di riconoscersi a sua volta sedotto. Ubbidendo alle antiche pulsioni, si risolve a troncare un rapporto sempre più impegnativo, in cui i sensi devono proteggersi da moleste intrusioni. Precede appena le sofferte disposizioni d’animo della donna: «A Bianca arrivò il sentimento che doveva vincere a volte di fronte a una pianta che non rispondeva alle cure. Un fastidio penoso che la tentava a rinunciare, sradicare la pianta e buttarla. Non c’era una regola, a volte resisteva alla tentazione, perchè con la pianta avrebbe buttato anche il suo lavoro, che sarebbe stato del tutto perso, a volte crollava, apriva il composter in fondo al giardino e via, terra e pianta, radici foglie e fiori».

Sembra la storia lineare di una doppia seduzione d’amore che si conclude con un reciproco disincanto. Dietro, c’è lo studio di design, con le donne che compongono un coro garrulo o pensoso alle vicende dei due primattori. C’è la città di Vicenza che oppone le sue nobili quinte a una società che esibisce mercantili egoismi ed occulta cupi segreti e rancori. In essa si rispecchia la vita ,apparentemente così levigata, del protagonista.

Ed a quel mondo si contrappone, nel romanzo, il culto dei fiori e l’edenico giardino di Bianca. Ma non è tutto. In questa «storia quasi perfetta» nelle sue evidenze, si colgono increspature, insorgenze, che la proiettano su un piano diverso, di elevazione simbolica. Ci sono le figure protettive, dissuasive, del figlio e della sorella di Bianca. Il figlio, che ha lineamenti di angelo, si chiama Gabriele, «un nome di verità». La sorella si chiama Beatrice e presiede con risolutezza alla «vita nuova» di Bianca.

Troppo facile, per Lui, il riferimento a Don Giovanni, il leggendario tentatore. Che qui non sarà folgorato e scaraventato all’inferno. L’inferno si riduce per lui allo studio, che «era un buco nero sulle scale buie», dove confrontarsi con il suo rovello. Mi sembra però aleggiare nel romanzo di Mariapia Veladiano, che ha pratica di filosofia, il nome di Kierkegaard: il suo «Diario del seduttore», l’ansia di una vita diversa che si realizza nel «salto» oltre l’abisso della noia e della disperazione. Con questi indizi, reali e ipotizzati, quella che ci viene raccontata è la storia di una salvazione: forse differita o elusa, ma coltivata da una cocente ferita.

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Fonte: La Stampa

“Una storia quasi perfetta” raccontata da Mariapia Veladiano

da Il Libraio – 30 gennaio 2016

 

Torna in libreria, lasciando Einaudi Stile Libero per Guanda, Mariapia Veladiano, autrice de La vita accanto, libro con cui ha vinto il Premio Calvino 2010 ed è arrivata seconda al Premio Strega 2011: il nuovo romanzo, Una storia quasi perfetta, è una storia d’amore e di seduzione.

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La trama? Lui è il proprietario e l’anima di un’azienda di design per collezioni di moda, carte e oggetti. Lei, Bianca, insegnante di discipline pittoriche in un liceo delle arti, gli propone una serie di disegni ispirati ai fiori. Disegni bellissimi, luminosi, unici. Bianca vive in mezzo alle piante e ai fiori, e da essi trae la sua ispirazione. Lui se ne innamora e, come fa sempre, decide di prendere non soltanto l’opera ma anche l’artista, singolare e incantevole come quei disegni.Comincia il corteggiamento, ma presto si accorge di essere lui ad avere bisogno di lei, conquistato e allo stesso tempo sconcertato dalla sua purezza quasi spirituale, dalla sua natura appassionata ed esigente, dalla gratuità dei suoi gesti, dalla sua vita con il figlio Gabriele in una casa piena di piante e di acqua che fa pensare a un piccolo paradiso. Il mondo intorno osserva immobile. È la provincia elegante e crudele della chiacchiera, che spiuma la verità e la sparge dalle finestre dei palazzi. Tutti a vedere. Tutti preparati a dire che si sapeva che sarebbe finita così. La natura di Bianca alla fine però ci riserva una sorpresa: non è sempre detto che la vittima sia il perdente……

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Fonte: Il Libraio

Il ritorno della Veladiano. Amore, seduzioni e inganni

da Corriere del Veneto – Venezia e Mestre, 2 febbraio 2016

di Massimiliano Melilli

 

Una storia di amore e seduzione fuori dal coro per un romanzo non convenzionale, dove le vittime possono diventare carnefici. E viceversa. Vita (e sentimenti) allo stato puro, plot tanto verosimile e bruciante quanto lo specchio di una trama che il lettore sente d’istinto come sua.

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Torna in libreria Mariapia Veladiano, formazione filosofica e teologica, un passato da insegnante, presente da preside e autrice de La vita accanto, libro con cui ha vinto il Premio Calvino 2010 ed è arrivata seconda allo Strega nel 2011. Il nuovo romanzo, Una storia quasi perfetta, (Guanda, 250 pagine, 17,50 euro) seduce per la polifonia di volti, emozioni, fatti e misfatti senza mai scivolare nel già letto, già vissuto.

L’incontro fra il factotum di un’azienda di design, business al parossismo, con un’insegnante di liceo artistico, creatività all’infinito e passione estrema per i fiori, innesca uno di quei corteggiamenti rituali che lasciano il segno. Lui è un manager don Giovanni senza nome, particolare che ne fa una sorta di seduttore seriale per l’autrice. Lei è Bianca: adolescenza, passato, sentimenti da cancellare ma riscattati in parte dalla nascita di un figlio e un presente da (ri)scrivere alla voce sentimenti. Nella vita di questa donna ci sono figure protettive. Il figlio, Gabriele, lineamenti angelici e «un nome di verità». La sorella, Beatrice, che s’impone con decisionismo nella vita nuova di Bianca. Perché lei vuole, fortissimamente vuole una vita nuova. Ne è cosciente. Anche nel suo lavoro. Così la prof propone al manager una serie di disegni ispirati ai fiori. Bozzetti e ghirigori luminosi, unici, fatti apposta per le esigenze dell’azienda del fascinoso manager. Bianca vive in mezzo alle piante e ai fiori, da cui trae ispirazione. E linfa vitale. Lui s’innamora di Bianca. E come fa sempre, decide di prendere non soltanto l’opera ma anche l’artista. Del nuovo romanzo della Veladiano colpisce non solo la dimensione fantasmagorica degli affetti ma anche i particolari apparentemente meno importanti. La casa invasa dalle piante è la metafora della spiritualità dell’insegnante.

C’è un passaggio chiave del libro. E’ l’incontro fra lui e lei dopo il colloquio di lavoro. Il tempo dell’attesa, desiderio che lievita. Il sopralluogo di lui a casa di Bianca, rivela più di un contesto residenziale, esprime una personalità: “Era luglio appena iniziato, c’era un sole dalla luce chiara che faceva lacrimare, lei non veniva da due giorni, e lui non aveva ancora un contratto sui disegni. Il giardino era quel che si dice un incanto. A destra l’azzurro trasparente di un grande ‘Rhododendron augustinii’ lasciato crescere senza ordine riempiva tutto un angolo. I rami uscivano dalla recinzione e sfioravano i passanti che non potevano fare a meno di guardare dentro…”.

Già, rovistare tra le pieghe di due vite agli antipodi – lui seduttore incallito, lei madre alla ricerca dell’Amore – per convincersi che nulla, oggi, in materia di sentimenti è definitivo, ialino. La bravura di Mariapia Veladiano sta nell’aver imbastito un romanzo a intarsi, un cruciverba esistenziale. L’autrice accompagna il lettore lungo una bianca arena narrativa dove l’amore è smaliziata (im)perfezione a due. Il manager, la prof e un rebus: amore perfetto o l’eterna storia seduttore – vittima? Infine, uno dei tanti valori aggiunti del romanzo: la provincia elegante e crudele del gossip (la Vicenza dell’autrice?) invidie e passioni a ruota libera. Tutti a fare le pulci al manager rubacuori e alla prof estrosa. Tutti sicuri che sarebbe finita così. Ma la natura di Bianca riserverà più di una sorpresa al lettore. Non sempre la vittima è il perdente…

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Fonte: Corriere del Veneto

Don Giovanni seduce per soldi

da Corriere della sera, 4 febbraio 2016

di Isabella Bossi Fedrigotti
Don Giovanni, ancora lui. Il prototipo è inestinguibile, sempre nuovo e sempre uguale a se stesso, attraversa i secoli mietendo vittime di tutte le forme e di tutte le età. Che dietro la maschera del gentiluomo affascinante, premuroso, apparentemente pazzo d’amore si possa nascondere un seduttore seriale dal cuore arido le donne lo sanno benissimo, eppure ci cascano.

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«Con me sarà diverso», si dicono, «Io lo cambierò» s’illudono, convinte di riuscire nella missione impossibile di trasformare un uomo così in un fidanzato ragionevolmente fedele se non addirittura in un buon marito.
Protagonista del nuovo romanzo di Mariapia Veladiano, Una storia quasi perfetta (Guanda editore, pagg. 237, € 17,50) è un Don Giovanni particolarmente odioso, perché lo scopo ultimo del suoi giochi di seduzione è di natura economica, nel senso che vuole a tutti i costi conquistare la dolce, ingenua, colta, e bella Bianca perché gli piace, certo, perché è attirato dalla sua innocenza, ma soprattutto perché l’eccezionale talento artistico della ragazza aprirebbe nuovi, ricchi mercati alla sua impresa di design. Importante è per lui stordirla di attenzioni e belle parole fino a quando non avrà firmato il contratto con cui gli cederà tutti i suoi disegni.

Una volta siglato il prezioso accordo egli potrà tranquillamente cercarsi qualche nuovo interesse, cioè una nuova vittima. Impari si annuncia la battaglia tra la giovane artista, vero agnello sacrificale, e l’imprenditore arraffone. Ad osservare e commentare la varie fasi del corteggiamento — e per lei di innamoramento — uno stuolo di efficienti collaboratrici, tutte quante già passate per il suo letto: e contagiate, chissà, dall’aridità di cuore del loro comune amante, fin dal primo giorno prevedono la trappola nella quale finirà la povera Bianca. Ma invece di avere compassione di lei, di metterla in guardia, di rivelarle con chi ha a che fare, perfidamente pregustano la fine della storia.

Il Don Giovanni senza nome del romanzo, specie di serial killer sentimentale, possiede un vasto, collaudato repertorio di seduzioni. Lo ha accumulato sul campo, imparando a conoscere il linguaggio dei segni, le espressioni del viso, del corpo, ed è espertissimo non solo di parole ma anche di pause, di silenzi. Spesso si serve di «materiale» appreso dalle precedenti conquiste, concetti, riflessioni, frasi che ha ascoltato e che gli ascrivono sensibilità, delicatezza d’animo. Né ha paura che qualcuna scopra il suo gioco, magari informata da chi l’ha preceduta, perché vede bene come le sue ex vittime si controllano, si sorvegliano senza empatia. Invano il lettore fa il tifo per la generosa Bianca, elegante nell’aspetto come nei pensieri, sperando che ascolti gli allarmi lanciati da quanti le vogliono bene. In cambio gli rimane una certa soddisfazione per la scontentezza, per la cupezza che restano nel cuore al Don Giovanni una volta «sfidanzato», benché abbia saldo in tasca l’agognato contratto, promessa di futuri incassi milionari. Mariapia Veladiano narra l’eterna ma pur sempre nuova favola dell’infelice seduttore con mano leggerissima per cui le pagine scorrono davvero senza peso. Ambienta la sua fiaba in una città non grande, peraltro molto riconoscibile, e il microcosmo della provincia con il suo conoscersi tutti, con il suo coro di chiacchiere, con i suoi commenti fintamente pietosi incrudelisce la vicenda, tanto che alla fine si ha quasi l’impressione di vedere scorrere il sangue sebbene non ne sia stata versata neppure una goccia.

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Fonte: Corriere della sera

Bianca, i fiori e l’uomo nero. Una storia di non amore

da L’Unità, 8 febbraio 2016

di Ida Amlesu

 

Il nuovo romanzo di Mariapia Veladiano scandaglia e racconta una relazione “malata”. Lui è un seduttore che si impossessa persino delle espressioni della donna per renderla cosa sua.

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“E più era originale il sentire, e nuovo, più era facile per lui accoglierlo come suo e farlo parte di sé. Un’arte affascinante, come tutte le arti. Era orrendo e si illudeva di non saperlo”. Con Una storia quasi perfetta, Mariapia Veladiano ci conduce nelle profondità (scarse) della vita estetica – direbbe Kierkegaard – della vita di provincia. Uno che i genitori avrebbero voluto chiamare Giovanni, come Don Giovanni e il seduttore Johannes, ma che resta dino alla fine del libro innominato. E non è un caso.

Siamo in una cittadina senza nome della provincia veneta, quella provincia piccola del pettegolezzo che uccide, dove tutti si conoscono o credono di conoscersi. Nella routine soddisfatta e monotona di un’azienda di design per collezioni di moda, carte e oggetti irrompe una novità: una cartelletta contenente disegni  floreali di incredibile bellezza. Il fascino di quei colori luminosi è tale da spingere il proprietario, il seduttore di cui sopra, a stipulare con l’artista un contratto di esclusiva per dieci anni. E a desiderare di possedere l’artefice insieme alla creazione.

Comincia così una storia di amore e non-amore tra Bianca, l’autrice dei disegni, candida nel nome e nei sentimenti, e “lui”, sempre un passo avanti o un passo indietro, a osservarsi insieme a lei da una prospettiva estranea, a scegliere con cura il lessico, il tono, l’argomento più adatto a conquistarla. Impossessandosi persino delle sue espressioni nel tentativo di renderla cosa sua. Quello che le parole non dicono si svela attraverso un’esplicita simbologia dei colori, in equilibrio tra la polarità bianco-nero incarnata fino nel nome da Bianca e da “lui”, scuro negli occhi, nei capelli e nell’animo, oscuro persino nel nome e amante di quel non-colore che è una non-scelta. “Noi non abbiamo vestiti neri, scarpe nere, penne nere”, lo capisce al volo Gabriele, l’amatissimo figlio di Bianca. “Niente. E tu perché hai tutto nero? Sai che il nero attira il colore?”. Gabriele sa e riconosce, perché è il figlio di un altro uomo nero, un altro seduttore inconsistente – dal nero in certo modo proviene e sa distinguerlo, conosce il fascino che emana, sa che il nero attrae per istinto l’amore, la fiducia.

Fiori e colori riempiono il romanzo, lo affollano di immagini di bellezza serafica e un po’ stordente, creando un’atmosfera rarefatta di attesa: un’infinita attesa che e cose accadano. Ma le cose accadono brevemente, e lasciano in bocca il sapore del sospetto: non è in quello che accade davvero il segreto, ma nel dialogo invisibile delle anime, prima ancora che si tocchino, quando il rischio di abbandonarsi è ancora un incubo remoto e senza consistenza. Solo lì Bianca piò vincere, cambiare le sorti prevedibili di un amore che per il seduttore svanisce sempre appena dopo la conquista.

Nei fatti, l’incontro tra i due è già deciso da un copione ritrito di fughe e di strategie, di apparizioni e di gesti plateali che incantano e frastornano Bianca, ma non riescono davvero a ingannarla. Il seduttore esiste solo nella sua arte: mostrarsi e ritrarsi, e di nuovo mostrarsi, in un eterno, noiosissimo ritorno dell’uguale.

Solo per un momento ha il dubbio che Bianca non sia come tutte le altre, che gli sfugga il bandolo della sua esistenza, che non riesca completamente a comprenderla, e quindi a dominarla. Ma il dubbio per legge non interessa il seduttore, guardare dentro di sé è perdersi nel baratro. Preferisce continuare i suoi giochi di schermaglie, convinto che la storia si ripeterà sempre uguale.

Ma non sarà così. Una storia quasi perfetta è un romanzo di delicata normalità che nelle pieghe della sua limpidezza nasconde un’analisi lucidissima e a tratti spietata sulla natura dei sentimenti – per chi li prova e per chi non li prova.

Quello tra Bianca e il seduttore è un tentativo di incontro tra due universi nati forse per non unirsi mai: quello di chi conosce la gioia e il dolore e quello di chi non conosce il dolore e quindi non distingue la gioia. Un universo, quest’ultimo, scandito da un unico sentire: quel persecutorio, snervante senso di fastidio quando le cose non vanno come verrebbe comodo.

È questo, forse, l’insegnamento di Veladiano: chi si cava d’impiccio non sempre è il vincitore e al seduttore, nella sua compulsiva ricerca di un piacere nuovo, la vita finisce per sfuggire tra le mani. Senza ritorno. Non gli rimane che la noia, il nulla di cui si è volontariamente circondato e riempito.

È la dimensione dei sentimenti a determinare l’identità, ed è per questa ragione che il seduttore di Bianca non può avere nome: perché in verità egli non è.

Bianca, i fiori e l’uomo nero

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Fonte: L’Unità

Recensione su Avvenire, 29 gennaio 2016

Recensione su Brescia oggi, 29 gennaio 2016

Recensione su Natural Style, gennaio 2016

Recensione su Venerdì di Repubblica, 29 gennaio 2016

Recensione su Famiglia cristiana, 21 febbraio 2016

Che cos’è la verità? Intervista nel blog Sul romanzo

Recensione su Conquiste del lavoro, 12 marzo 2016

Recensione su La Provincia di Cremona, 14 marzo 2016

Recensione su L’Adige, 14 marzo 2016

Recensione su Trentino, 14 marzo 2016

siate liberi

Può capitare di leggere le 587 pagine scritte in caratteri lillipuziani de Il giuoco delle perle di vetro1 a diciannove anni, dopo non aver amato né il didascalico Narciso e Boccadoro né l’ecumenicoSiddharta, infinitamente più accattivanti nel loro offrirsi a una lettura tutto sommato facile, quali che poi siano le profondità che molti ci vedono fra una riga e l’altra.

Ci si arriva magari portandoselo in valigia a un campo di studio organizzato dai gesuiti, fra le montagne dell’Alto Adige a Selva di Val Gardena. Corso di maturità teologica si chiamava, ragazze e ragazzi usciti dalla maturità e immersi in quel momento unico nella vita in cui ogni cosa sembra possibile, squadernata davanti a noi, vertigine di libertà da attraversare.

Non lo si sa in anticipo, ovviamente, e niente di quel che si è letto nelle critiche piene di riferimenti storici e letterari lo fa prevedere, ma capita di trovare nel libro proprio (anche) questo momento unico. Josef Knecht, futuro Maestro del gioco, a ventiquattro anni lascia l’alunnato di Waldzell e comincia gli anni dello studio libero, «i più sereni e felici della sua vita. Sempre infatti è meraviglioso e commuove il desiderio vagante di scoperta e di conquista da parte di un giovane che, libero per la prima volta dalla costrizione scolastica, va incontro agli sterminati orizzonti dello spirito, non ha ancora perduto le illusioni, non dubita né della propria facoltà di dedizione infinita né dell’immensità del mondo spirituale» (111).

Intanto, fuori dalle pagine, in un contesto di montagne incantate ben più vive dell’immobile Castalia di Hesse, s’incontra quel formidabile miscuglio di libertà, quasi anarchia, e obbedienza che è il mondo dei gesuiti.

Niente mai è obbligatorio, ma tutto in qualche modo si ricompone alla fine della giornata. I letti rifatti, le passeggiate godute, gli incontri biblici, filosofici, politici, teologici intensi e frequentati, i tornei organizzati, la preghiera ben costruita. Eppure tutta la libertà possibile viene assecondata. I ribelli restano ribelli, anzi, spesso, lo diventano di più e figli di notai che le volture le hanno succhiate con il latte materno, nati con un futuro disegnato, tornano in pianura e s’iscrivono a matematica come avevano sempre desiderato, e le figlie di commercialisti o di imprenditori con studi e aziende già belle confezionate diventano matricole di filosofia o si prendono l’anno sabbatico nel Sertão.

E portati da un movimento sorprendente si passa dalle pagine alla realtà, da un mondo all’altro, ugualmente suddiviso in province, popolato di maestri, trapuntato di dialoghi spirituali.

Qua e anche là i maestri sono singolari. A Selva c’è un inafferrabile padre Filippo Clerici, il suo sapere spirituale lo regala nelle escursioni, quando insegna che per salire servono un appiglio e un appoggio e bisogna saperlo e sapere quanto e come sono necessari in montagna e nella vita. C’è padre Silvano Fausti in perenne odore di eresia, da lui stesso coltivata come identità necessaria, e questo non preoccupa nessuno, né lui né i padri della sua comunità. A volte eravamo noi ragazzi i più spaventati della libertà che in nome del Vangelo ci veniva improvvisamente restituita tutta intera. Siate liberi davvero. Ma davvero davvero. E a dirlo ogni volta è il padre Giangiacomo Rotelli, con la sua Chiesa come «patria degli uomini liberi».

Dove sta la libertà? si chiede Josef nel corso dello splendido dialogo con il Magister musicae. Nella scelta della libera professione che i «non castalii» possono fare? Un’illusione di libertà, dice il Magister. Perché il medico, il giurista, il tecnico «diventa schiavo di potenze inferiori, viene a dipendere dal successo, dal denaro, dalla sua ambizione, dalla sua sete di gloria, dal compiacimento che trova o non trova presso gli altri» (73). Le parole delle pagine si confondono con i giorni che si vivono.

Certo, qualcosa sarebbe capitato, qualcosa di preciso, che, anche senza volere, avrebbe segnato un confine alle infinite possibilità che ci stavano davanti. Ma doveva essere qualcosa di nostro.

Poi si legge quell’incredibile pagina sull’esser visti e riconosciuti in cui il Magister musicae ripesca Josef dalla sua crisi. Di che cosa ha bisogno una persona se non di essere vista e riconosciuta? La pagina in cui il Magister vede il giovane Josef Knecht è un desiderio realizzato in parola. È la vocazione. Vocazione vuol dire che un altro ci vede, ci riconosce, ci dice vieni con me perché posso aiutarti a essere te. Molti di noi l’hanno incontrata lassù, visti uno per uno.

Poi il campo è finito e tutti si sono dispersi. Ma la percezione che un Divino, immeritato, non conquistato attraverso qualchesia pratica o sacrificio o adesione a un dogma o a una Chiesa, è in noi, in virtù sua e non nostra, questa percezione è diventata compagna dei giorni.

1 Hermann Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, Mondadori, Milano 1979.

Da Il Regno, 15 novembre 2015

ma come tu resisti, vita

ma-come-tu-resisti-vitaPer paura la vita diventa un camminare sghembo. Scarto improvviso per non sfiorare il prossimo che rimane sconosciuto.
E scappare di sguardi con la paura al centro e tutto il mondo a confine. Incrociarsi in difesa senza incontrarsi.
Rinunciare al nuovo. Quiete che si cerca con affanno, a testa bassa, in un perpetuo e inconsapevole pensare a tessere fughe, da loro, da noi, da quel che potremmo avere e da quel che abbiamo.
Forse non perderemo un amore, perché non ci siamo fermati a viverlo. Forse l’unico incontro che ci raggiunge, e a cui scegliamo di non dedicarci, ci lascia graffi che fanno poco male e così scansiamo qualche ferita in questo calcare pesante il mondo. In fuga.
Serrare il pensiero senza la leggerezza curiosa degli occhi che vedono. Non sentire lo sciame dei sentimenti che ci moltiplica nelle vite di tanti. E le vite che ci toccano quel che basta per sentirle un po’ nostre. Meravigliosa umanità comune che la paura ci rende molesta e stridente.
Per paura si abbandona la battaglia buona del nostro bene. La relazione che ci fa persone, viste e riconosciute.
Si rinuncia a capire. Ci si separa. Si uccide. Ci si uccide.
Per paura si muore di paura.
Non aver paura ce lo deve dire un altro.
Insieme è nulla la paura.

l’amore carnefice

Donne che non conoscono il loro valore. Uomini che di valore non ne hanno molto. Il mondo che Elizabeth von Arnim racconta nei suoi romanzi è spesso un piccolo, quieto ritaglio della grande società vittoriana, i cui difetti sono letti attraverso un’ironia intelligente che permette di vedere anche il bene di un formalismo che comunque e per vie indirette un poco purtuttavia educa i buoni pensieri.

Di buoni pensieri e di parole ancora più buone strabocca Vera, romanzo che Elizabeth von Arnim scrisse nel 1921 (la 1a traduzione italiana è di Mursia [MI] del 1993; la più recente è di Bollati Boringhieri [TO] del 2006), solo un anno prima di Un incantevole aprile, leggerissimo nell’ironico raccontare il viaggio in Italia di quattro dame inglesi annoiate dalla nebbia e, le due di loro sposate, anche dai rispettivi mariti. In Vera invece non c’è niente di leggero, tranne la scrittura elegantissima dell’autrice. È la storia di Lucy, giovane figlia di un padre che muore d’infarto alla quinta riga del romanzo. Lei ha sempre trascorso la vita con lui, felice di accompagnarlo nei viaggi, di assecondarne l’amore per la lettura, la vita tranquilla, i sentimenti buoni appunto. Il padre «era delicato e lei se ne prendeva cura. Fin da quando riusciva a ricordare, suo padre era stato delicato e lei se ne era presa cura».

Lei è in giardino, stordita, non sa allineare pensieri e sentimenti, come capita quando il mondo esibisce all’improvviso un suo aspetto alieno. E qui, per caso, davanti al cancello del giardino, passa Everard Wemyss che i pensieri li allinea con geometrica orrida precisione. È soprattutto un uomo molto seccato. Sua moglie è morta da poco più di una settimana, c’è un’inchiesta in corso perché è caduta non si sa come dalla finestra di The Willows, la loro casa di campagna, e questa inchiesta gli è molesta alquanto. Poi tutti si aspettano che lui sia affranto e anche questa mancanza di libertà verso i sentimenti che vuol provare gli risulta seccante. Infine è irritato dalla solitudine che il lutto gli impone. Non può giocare a bridgeperché è sconveniente, non può andare al circolo perché è sconveniente. Non può godere della compagnia di una moglie che devotamente lo aspetta a casa perché Vera è sconvenientemente morta.

L’incontro fra Everard e Lucy è casuale, come spesso capita fra vittima e carnefice, ma non c’è niente di causale nella trappola che lui costruisce fin dal primo minuto intorno a lei. Si occupa del funerale del padre, diventa normale presenza nei giorni del dolore, atteso da Lucy come amico prima, familiare poi. E infine amante. Lucy s’innamora e il cielo sa quanto può essere pericoloso innamorarsi.

Tutti noi che leggiamo, tutti, vediamo che lei cade nella trappola, un piano inclinato, un imbuto che porta giù e sempre più giù. Anche Lucy lo sa, troppo intelligente, sottile, troppo fine il suo pensare, lo sa e vede le mille sfumature di nero dell’anima (anima?) di lui. È crudeltà pura quando lui la chiude fuori dalla porta di casa in mezzo alla bufera, il primo giorno del loro rientro dal viaggio di nozze, per un’impalpabile offesa che ritiene di aver subito, e davvero questo è il meno.

È perversione quando le impone la casa, lo studiolo, la camera, il letto di Vera. È cannibalismo quando pretende di possedere tutto di lei, il tempo, i gesti più intimi come quelli del lavarsi, e vuole educare le sue parole, tenendo il broncio o arrabbiandosi od offendendosi o minacciando ambiguamente di offendersi finché lei non dice quella giusta. Fino i pensieri vuole ammaestrare.

E tutto questo lui chiama amore. E anche lei chiama amore il suo trovar giustificazioni al comportamento di lui. Doveva pur essere amore, una forma misteriosa, contorta, a lei sconosciuta di amore. Non poteva essere solo crudeltà distillata ora per ora, parola per parola. E nella assoluta solitudine in cui si trova a The Willows Lucy molto presto finisce con il cercare proprio Vera, ovvero la traccia che Vera ha lasciato in quindici anni di matrimonio, per capire come sia l’amore per lui, perché lui non può essere il Barbablù che le appare.

Insieme alla dolcissima zia Dot, che riesce a venirla a trovare, sia pure una sola volta e poi mai più, perché il potere sadico è perfetto se non ha testimoni, insieme a zia Dot getta lo sguardo nella biblioteca di Vera, poeti malinconici, romanzi pieni di dolore e morte, e poi un’infinità di guide turistiche Baedeker: «I libri che la gente leggeva… c’era qualcos’altro di più rivelatore?».

Perché Lucy vede ma non abbastanza da saper volare via? Vera è volata via nel modo più ingiusto, volata dalla finestra, caduta, buttata o spinta non cambia niente. La morte come soluzione al dolore è sempre maligna.

Una storia che comincia con l’egoismo mostruoso di lui, continua con un’infinita serie di menzogne, condite di perfette parole d’amore perché i seduttori le parole le conoscono eccome, e finisce senza nessuna ironia. Ma poter finalmente vedere quanto orrido, piccolo, spregevole può essere una persona di cui non si sa come ci si innamora è un poco salvifico. Anche questo può fare la letteratura.

Su Il Regno, 15 luglio 2015