canto di Natale

È la vigilia di Natale, c’è la nebbia, è buio, fa freddo nel negozio, fa freddo nella strada ma il vero freddo è «il freddo che aveva dentro». «Gli gelava il viso, gli affilava il naso appuntito, gli raggrinziva le gote, ne induriva l’andatura, gli arrossava gli occhi, gli illividiva le labbra, si rivelava nella voce gracchiante. Una brina ghiacciata gli copriva il capo, sopracciglia e mento legnoso; ed egli portava sempre in giro con sé quella sua bassa temperatura, che gelava il suo ufficio anche nei giorni di canicola, e non saliva, sia pure di un grado, neanche al tempo di Natale».

Ebenezer Scrooge è il protagonista del Canto di Nataledi Charles Dickens1 e trascorre i giorni della sua vita scalpellato in un suo egoismo così compatto che il freddo dell’inverno nemmeno lo sente perché lo emana in proprio lungo tutto l’arco dei mesi e insieme ostinatamente s’impegna a credere che scelta non ci sia, a credere che la vita sia così, questo furioso difendere il proprio tangibile bene, fatto di cose che non si usano per risparmiarle a se stesse, di case che non si riscaldano per accumulare in banca titoli che non si godono perché hanno la missione di aumentare, sempre di più, sempre di più.

Difendere le cose e insieme difendersi dai sentimenti, sia mai che costino un regalo o anche solo una gratitudine, spiffero di vita che ci invade. Per cui l’affetto del nipote ostinatamente cordiale è solo molesto. Ma bisogna difendersi soprattutto dai sensi, «perché un nonnulla basta a turbarli. Un piccolo imbarazzo di stomaco può renderli ingannevoli». Benevolenza da buona digestione, sia mai che dopo ci si debba pentire. E in questo generale totale assoluto viaggiare solo e diffidente, la visita del socio Marley, peraltro del tutto defunto da sette anni, cade inizialmente sotto l’accetta del sospetto, come tutte le relazioni della sua vita circoscritta, serrata, inchiavistellata.

Triste lui, rattristati quelli che gli stanno intorno, come si fa a non vedere? Come facciamo tutti a non vedere la nostra infelicità?

Il socio Jacob Marley che arriva dall’oltretomba carico di una catena da lui stesso costruita in vita, fatta di «chiavi, lucchetti e libri mastri», spiega a Scrooge come a un bambino che non vuol capire. È la vita circoscritta la colpa e la condanna insieme, il non essersi mai allontanato dall’ufficio, mai «oltre gli stretti limiti del nostro minuscolo banco di cambio», gli occhi incollati a terra e ai beni e mai mai alla «stella benedetta che condusse i magi a una capanna».

Al di là del vortice di buoni sentimenti, di un mondo povero ma felice in cui Scrooge viene trasportato dallo spirito del Natale passato e dallo spirito del Natale presente, e anche al di là dell’orrore ormai scontato in cui lo precipita la visione del Natale futuro, che lo immerge nella realtà della sua morte e dello sciacallaggio da cui è circondata, il viaggio natalizio di Scrooge è sostanzialmente un vedere. «Vieni e vedi». Non sono le parole a trasformarlo ma il lineare vedere come ciò che si è scelto ha avuto conseguenze su di noi e sul mondo e come quel che faremo da ora in poi è ancora tutto nelle nostre mani, non è scritto.

Ciò che Scrooge impara è qualcosa che in fondo sappiamo ma dimentichiamo, e cioè che è la solitudine a disseccare la nostra umanità. Non è bene che l’uomo sia solo. Ed è la cecità lo strumento che ci permette di vivere così. Di non vivere così. Caino dov’è tuo fratello? Scrooge che esce dalla notte di Natale vivo dopo aver attraversato il suo funerale è un uomo che vede, improvvisamente vede: il tacchino da regalare, i gentiluomini che aveva cacciato senza fissarli negli occhi il giorno prima, e sente improvvisamente il freddo del negozio e la gioia della festa e la felicità di rendere felici, felice della felicità degli altri.

Chissà se il terribile peccato contro lo Spirito non è semplicemente questo negarsi alla vita, alla ricerca della propria piccola arruffata sgangherata felicità. Movimento rischioso, si può amare e perdere, partire e cadere. «Sono solo un mortale, potrei anche cadere», dice Scrooge al fantasma dei natali passati. La condizione di tutti è questo poter cadere ma permettere alla paura di inchiodarci a un destino che vogliamo credere scolpito è negarsi il bene che la vita disperde lungo gli anni che ci sono consegnati.

Questo movimento può sembrare forse sul principio e anche dopo, a tratti, più difficile e molesto del quieto restare al banco del cambio, che diventa poi faticoso difendere una posizione, arginare la forza del mondo di affetti e relazioni che naturalmente e senza pretese arriva, entra dalla porta nella forma del suono di mani che sbattono l’una contro l’altra per vincere il freddo, o piedi che scivolano sul ghiaccio mescolati alla voce di un bambino che canta canzoni di Natale.

Aprire gli occhi alla vita è realtà prima che metafora e se non cambierà il mondo intero cambierà il nostro mondo e quello di un bel po’ di persone che ci stanno intorno. Non è poco, proprio no.

1 Charles Dickens, A Christmas Carol, Londra 1843; la versione qui citata è tratta da Il canto di Natale, Rizzoli, Milano 2015.

Da Il Regno, 15 novembre 2015

ritratti dal Calvino: Mariapia Veladiano

Ritratto di Mariapia Veladiano, di Davide Lorenzon per Cartaresistente

Da Cartaresistente

Mariapia Veladiano è nata a Vicenza nel 1960. Dopo essersi dedicata con passione all’insegnamento, attualmente è preside di una scuola vicentina. Nel 2010 si è aggiudicata la vittoria nella 23°edizione del Premio Italo Calvino grazie all’opera “Memorie mancate”, diventata poi nel 2011 il bellissimo romanzo “La vita accanto” edito da Einaudi Stile Libero, che l’ha portata in finale al Premio Strega. Oggi è una delle scrittrici più amate del panorama italiano e i suoi articoli appaiono periodicamente su riviste e quotidiani. La ritroveremo in libreria a partire dal 28 gennaio con “Una storia quasi perfetta”, edito da Guanda.

Prima di qualsiasi altra cosa, puoi raccontarci il tuo rapporto con i libri e con la scrittura?
Allora partiamo dal fatto che sono stata una lettrice appassionata. Da piccola mi perdevo nei libri e provavo a scrivere storie simili a quelle che leggevo. Mi piaceva inventare mondi e come tutti i bambini sognavo di essere io la protagonista di tutte le storie. Scrivere mi è sempre piaciuto anche perché mi riusciva facile, facile rispetto alle richieste della scuola, ad esempio, e le soddisfazioni arrivavano senza sforzo. È una sensazione bellissima quella che ci accompagna quando le parole si scrivono quasi da sole. Tutti i bambini intorno fanno sforzi tremendi per scrivere qualcosa e noi invece no, scriviamo e scriviamo. Poi è arrivato un altro tipo di scrittura. Scrivere per capire quel che mi capitava e per trasformarlo anche. Raccontare storie che intercettano le vite degli altri e ne trovano il comune segreto. Segreto perché non sappiamo chiamarlo per nome ma lo sappiamo riconoscere se qualcun altro lo nomina. Qui la scrittura è diventata molto più faticosa. Una bella fatica, ma del tutto diversa dalla spontaneità con cui si scrive da bambini.

Parlaci del manoscritto che hai inviato al Premio Italo Calvino: com’è nato e perché l’hai scritto?
La storia di Rebecca bambina che si sente bruttissima è arrivata proprio da sola. Del resto ho scritto sempre così, con la libertà di chi non ha in mente di pubblicare e si dedica alle storie che scrive per riscriverle più avanti e poi ancora riscriverle e ogni tanto rileggerle. Però a posteriori riconosco di avere raccolto dai ragazzi, dal mio vivere a scuola, una crescente paura di non essere accettati, un rischio epocale di esclusione, una specie di cattivo segno dei tempi. Viviamo un’epoca “giudicante”. Tutti spettatori davanti a uno schermo, seduti, pronti a giudicare secondo canoni rigidi e costruiti. Non è facile vivere così. Rebecca lo racconta. “La vita accanto” è stato scritto in molto tempo, a pezzi, un pensiero alla volta. Proprio niente a che vedere con la scrittura vorticosa di quando si è bambini.

Qual è stato il percorso che ti ha portato fino al Calvino?
Nel 2010 ho compiuto 50 anni. Un piccolo trauma. E mi è venuto il pensiero di provare a vedere se a qualcuno potesse interessare quel che scrivevo. Forse un bisogno di conferma di valere, chissà. O forse ho superato la paura del giudizio. Sulla scrittura, voglio dire. Ho scritto molto prima. Racconti, qualche romanzo tutto intero, poesie. Ma non avevo cercato la pubblicazione. Difficile dire che cosa spinge davvero a esporsi attraverso la scrittura. In realtà io vivevo già da anni una piccola esposizione, ho lavorato per Il Regno, ho fatto la redattrice di un settimanale, ma si trattava di scrittura di servizio. La narrazione espone molto di più. È una consegna di sé al romanzo e non per il banale motivo che sempre quel che si racconta passa attraverso la propria vita e ne conserva la traccia, ma anche perché tutto proprio tutto è nostro in un libro, ogni parola scelta, ogni nome, ogni luogo. È uno squadernamento anche quando ci si nasconde programmaticamente.

Come hai vissuto la partecipazione al Calvino?
In realtà avevo un mare di pensieri. Io non credo a chi racconta di avere inviato un manoscritto e di averlo poi dimenticato. E’ proprio una piccola o grande consegna di sé. Io non pensavo di essere segnalata né di vincere ma speravo. La premiazione è stato un momento intenso. Non conoscevo assolutamente nessuno, ero arrivata a Torino da sola, non avevo amici né conoscenti. È stato facile essere accolta. In realtà i “lettori” e giudici del Premio costituiscono un gruppo molto eterogeneo ma capace di rapporti di amicizia vera. Da allora non ci siamo persi più. E ho relazioni di amicizia e affetto anche con i finalisti di quell’anno: Antonio Bortoluzzi e Pierpaolo Vettori ad esempio. Che poi hanno pubblicato e continuato a scrivere.

A seguito della vittoria è arrivata la pubblicazione; quale effetto ha avuto su di te l’ingresso nel mondo dell’editoria in veste di scrittrice?
L’arrivo in Einaudi è stato un vortice. Non sapevo che cosa aspettarmi, non avevo nessuna esperienza di case editrici e pubblicazioni. Non conoscevo nessuno. Einaudi Stile Libero ha creduto molto nel libro, un bel lavoro di squadra. Ho imparato a mettere in fila periodicamente le cose importanti, a riassumermele, perché l’esposizione improvvisa può diventare pericolosa, far perdere l’equilibrio. L’età mi ha aiutata.

Dopo l’esordio è cambiato il tuo rapporto con la scrittura?
Un poco sì è cambiato. È cresciuto il peso di uno sguardo esterno sulla scrittura. Scrivere sapendo di non pubblicare ci lascia più liberi. Poi arrivano le scadenze, i tempi da rispettare. Il fatto di non essere una scrittrice “seriale”, si può dir così? Cioè di scrivere storie molto diverse fra loro, dà un senso di esordio ad ogni uscita. Un doversi chiedere: e questo romanzo come sarà accolto? C’è da dire che intanto erano cambiate altre cose nella mia vita. Nei mesi del Calvino ho anche vinto il concorso per fare la preside, in Trentino. Un’esperienza bellissima in una regione che ha uno straordinario reale attento interesse per la scuola e che è un laboratorio continuo di sperimentazione didattica e anche organizzativa. La mia vita ha avuto una accelerazione impensata.

Di recente il tuo romanzo “La vita accanto” è diventato uno spettacolo teatrale. Com’è avvenuto il passaggio dalla pagina scritta al palcoscenico?
Quando un libro diventa teatro cambia natura, diventa un’altra cosa. Il romanzo è diventato un monologo. È stato riscritto dalla poetessa Maura Del Serra, quindi una scrittura d’artista, straordinaria. Un monologo vive completamente della identificazione con l’attrice che lo interpreta. Monica Menchi, che lo porta in teatro, ha una personalità fortissima, fin dalla prima battuta molto più potente rispetto alla voce di Rebecca nel libro. È giusto così. Io non ho avuto alcuna parte nella trascrizione teatrale e anche questo è giusto che sia così.

È vero che hai una passione particolare per il colore azzurro?
Sissì. Amo l’azzurro e ho proprio chiesto che ci sia nelle copertine. Ma sono stata sempre fortunata perché tutti gli editori, Einaudi per i due romanzi, Rizzoli per il giallo per ragazzi, e ora Guanda, mi hanno sempre coinvolta nella scelta delle copertine. La finestra de “La vita accanto”, con la tenda che vola nell’azzurro, è assolutamente perfetta. E’ tutta di Riccardo Falcinelli, splendido creatore di quasi tutte le copertine di Einaudi Stile Libero. E’ completamente sua anche quella di “Ma come tu resisti, vita”. Io ho solo chiesto che fosse la coda di un pavone bianco, simbolo di resurrezione, perché il libro racconta le mille resurrezioni di cui possiamo diventare capaci anche quando non lo sappiamo. E lui ha inventato questa coda che è anche un’esplosione, di vita appunto. Per “Il tempo è un dio breve” ho proposto un dipinto di un pittore giapponese che amo, Yamaguchi Kayo. Ed è lo stesso della copertina del prossimo libro. L’unica senza azzurro, ma era ben tempo di cambiare, altrimenti il lettore pensa che sia sempre lo stesso libro!

Il successo letterario ha in qualche modo cambiato la tua vita?
Tutto molto veloce, ecco. Ho difeso bene la mia vita dalla eccessiva esposizione, ho viaggiato molto con il libro evitando per quanto possibile le occasioni di esposizione impropria. Ma è davvero oggi tutto troppo compresso.

A gennaio sarai in libreria con “Una storia quasi perfetta”. Qual è il tema del tuo nuovo romanzo? E dove potremo incontrarti?
È una storia di seduzione. C’è una donna, l’incanto della sua arte, lei disegna, e soprattutto della sua vita, rinata già una volta. C’è un uomo, presente dall’inizio alla fine. Il romanzo è quasi un duetto. Torna Vicenza, come nel primo romanzo, luoghi nuovi della città, che continua a non essere nominata. Le prime presentazioni saranno a Vicenza, Roma, Milano. È bello accompagnare i propri romanzi, incontrare i lettori e farsi restituire da loro la storia, diventata diversa attraverso la loro vita.

Da Cartaresistente, 12 settembre 2015

Ritratti dal Calvino, in collaborazione con Premio Italo Calvino
Interviste di Ella May, ritratti di Davide Lorenzon

il presepio: solo una scuola libera può educare alla convivenza

Proibire d’autorità i presepi a scuola è insensato tanto quanto imporli e infatti non c’è circolare, programma ministeriale o linea guida del Miur che lo faccia.
Questo vuol dire che le scuole, sulle scelte didattiche che toccano situazioni sensibili in cui sono in gioco le identità, le appartenenze, il mobile confine fra discriminazione e accoglienza, sono, grazie alla nostra splendida Costituzione, libere. Proprio libere. Libere di proporre e trovare insieme a tutte le componenti della scuola, cioè i ragazzi, i genitori, i docenti, il modo più adatto a costruire la convivenza nelle scuole. Di fare il presepe oppure no.
Quel che capita oggi nelle scuole è un miracolo perché malgrado i tagli di organico, per cui da anni sono state annientate le compresenze necessarie non solo all’integrazione degli alunni immigrati, ma anche al recupero degli italianissimi nostri studenti che arrivano da situazione di svantaggio culturale e sociale, malgrado questo la scuola riesce ad essere quell’ormai unico laboratorio di convivenza che impedisce alla società presente e futura di esplodere.
Chi si è riconosciuto amico sui banchi di scuola non si fa la guerra a vent’anni o trent’anni.
Bene, questo lavoro richiede sapienza, lettura della realtà concreta delle classi, dei genitori, alleanza con il territorio (Comuni, sindaci e servizi). Questo lavoro la scuola lo fa ogni giorno, un miracolo di intrecci e alleanze che non sono buonismo ma sapienza e anche buon senso. È un volare altissimo con mezzi limitati e professionalità infinita.
Nel mentre che un preside o due finiscono a luccicare per un momento sui blog, loro malgrado o forse anche no, a combattere o sostenere il presepio a volte con motivazioni sorprendentemente extrascolastiche, l’acrobatico miracolo di tenuta della scuola va avanti, nella discrezione necessaria al dialogo.
È insensato pensare che un preside vada assunto o licenziato in funzione del suo essere obbediente agli interessi politici di un assessore regionale di turno, o di un sindaco che minaccia controlli sulle attività natalizie delle scuole. Un delirio che confonde competenze, nasconde opportunismi politici tanto malinconici quanto pericolosi perché insabbiano lo spirito critico, la paziente fatica di comprendere i fenomeni.
I presidi buoni sono quelli nelle cui scuole l’integrazione funziona attraverso scelte pedagogiche nate dalle condizioni oggettive della realtà scolastica. Un quarto di quanti cercano rifugio in Europa sono bambini, il 9% dei nostri studenti ha cittadinanza non italiana, ma in molte scuole sono il 50%, e più. Non ci sono due classi uguali, due studenti uguali, due situazioni uguali.
È sbagliato non permettere il presepio a scuola quando il presepio è parte integrante di un percorso scolastico riconosciuto da genitori e bambini, fatto proprio grazie ad appuntamenti negli anni attesi, con il corredo di canzoni e di doni scambiati con le famiglie, il concerto organizzato dopo aver scelto canti e poesie con la prudenza di chi conosce ambiente, persone, storia dei luoghi. E la prudenza non è debolezza, è forza che sa tenere insieme quel che siamo e si apre a quel che riconosciamo diverso ma parte della nostra comune umanità.
Di sicuro però sono altrettanto sbagliate e indecenti le maleparole pelose con cui ci si appropria della profondità di una tradizione cristiana per usarla come una clava demagogica con cui nutrire i propri interessi politici e tentare di stordire la nostra intelligenza.

©LaRepubblica, 30 novembre 2015

Vi racconto la storia di una seduzione

Sul prossimo libro, in uscita in gennaio 2016 presso Guanda, il quotidiano indipendente del Trentino L’Adige è uscita una lunga intervista con Paolo Ghezzi,  in cui racconto la storia di una seduzione.

E tre. Mariapia Veladiano – già dirigente scolastica in Trentino e ora a capo di un megaistituto tecnico nella sua Vicenza – che ha incantato tutti con il suo romanzo d’esordio La vita accanto (Premio Calvino 2010) – storia poetica e tragica di una ragazza prigioniera del proprio viso inguardabile – e ha commosso con il numero 2, un intenso libro esistenzial-teologico sull’amore (Il tempo è un dio breve, 2012), ha consegnato il suo terzo romanzo, che uscirà a metà gennaio.

Lo spiega in questa intervista all’Adige alla vigilia del suo ritorno a Trento, domani sera, per il dialogo con don Luigi Ciotti che inaugura la settimana dell’accoglienza del Cnca.

Dunque, Mariapia, da Einaudi passa a Guanda: una scelta anti-fusione Mondazzoli?

«No, ho deciso di uscire ben prima, Guanda è una bella casa editrice, Gems è un bel gruppo. A 4 anni dall’ultimo libro, ho cambiato».

Titolo?

«Una storia quasi perfetta».

In copertina?

«L’ho scelta io, come le altre due: c’è un’opera dello stesso autore, Yamaguchi Kayo, che ha firmato la copertina del “dio breve”. Stavolta, è una cascata di foglie di cachi con un gatto nero, il titolo è “Les kakis”. E, importante per me, c’è un gatto. Nero. Lui aveva un gatto».

Di che cosa parla, la storia quasi perfetta?

«Ancora una volta di una donna. Ma stavolta è una storia di seduzione».

Sedotti e seduttori, di tanto in tanto, lo siamo tutti. Senza arrivare alle compulsioni comicotragiche di don Giovanni. Ambientata quando e dove, la storia?

«A Vicenza, che però anche stavolta non viene nominata, una Vicenza piena di fiori e profumi. Una storia contemporanea. Una storia di relazioni, quasi solo di persone. Lei è una disegnatrice, c’è il mondo dell’arte…».

Lei è una perfezionista, sono passati quattro anni dall’ultimo romanzo: immagino che ne sia convinta…

«Ne sono contenta, era una mia vecchia cosa che ho ripreso in mano, ci ho lavorato a lungo».

Leggeremo con passione: lei è una di quegli scrittori che, quando pubblicano, si capisce che lo fanno perché hanno qualcosa di urgente, di importante da dire. Ma importante, decisivo oggi in Europa, è anche il tema dell’accoglienza, su cui Vincenzo Passerini l’ha chiamata a parlare a Trento, lunedì. Ci anticipa qualcosa?

«Partirò, credo, da questa nostra società poco accogliente. A cominciare da un’architettura pensata e fatta per l’individuo, non per la comunità: viviamo in città non accoglienti, con i condomini senza spazi, sollevati dal suolo per far spazio ai parcheggi. I bambini fanno fatica a trovare varchi per toccare la terra. Le case sono ridotte a oggetti di possesso individuale, non destinate alla condivisione: sono merce da scambiare, diventano recinti, spazi separati, dagli steccati della paura».

Paura, confessata e non, che è al centro della politica sull’immigrazione.

«Il tema della paura viene coltivato da qualsiasi governo, di destra o di sinistra, come strumento per limitare la libertà. Noi saremmo più accoglienti che paurosi e invece educhiamo anche i bambini alla paura, che ci blocca non solo nei confronti di chi viene da lontano, ma anche di chi è molto vicino».

Ci sono terre d’Italia dove più viene coltivata, politicamente, la paura?

«Credo che dappertutto ci siano Caritas generose e rioni, terre private dove non prevale la paura: e non per eroismi solitari, di cui dobbiamo diffidare. A Vicenza c’è stato il caso di un gruppo di migranti destinati a un appartamento in viale Milano, una strada centrale, in un condominio, tutto regolare e gestito meravigliosamente da una comunità d’accoglienza: ma c’è stata una sollevazione straordinaria e sono stati allontanati dal prefetto. In pochi, si fa fatica. L’accoglienza funziona dove c’è un’amministrazione che se ne fa carico, come ho visto a Lecco, che inserisce i migranti a lavorare gratis nei servizi pubblici».

E sul piano culturale, come passare dalla paura all’accoglienza?

«Il rischio è che alcuni “buoni” vengano delegati al compito di essere accoglienti: diventano come la riserva indiana di tipi bizzarri o pericolosi, da cui pescare foglie di fico per coprire le vergogne della società. Il rischio è sul piano del linguaggio: nei media è in voga una koiné linguistica non accogliente. Buona parte del linguaggio pubblico – al di là dei proclami – risponde al sospetto che l’immigrazione sia un problema da risolvere invece che una realtà della storia, come tante altre volte è capitato. Che va accompagnata con tutta l’intelligenza e la prudenza possibile, senza improvvisare in extremis».

Il futuro dipende, anche in questo caso, da una scuola davvero «buona»?

«La scuola è il grande laboratorio della convivenza possibile: se comincia ad esserlo oggi, tra vent’anni si vedranno i frutti. La scuola pubblica ha questo compito, se no può morire. Suddividere i ragazzi tra scuole cristiane, musulmane e laiche sarebbe fallimentare: la scuola è imparare tutti insieme. La scuola trentina, in particolare, ha ottimi progetti di integrazione: ha un progetto vero. L’inserimento in una classe di un alunno straniero a gennaio sta diventando una normalità, non dev’essere visto come emergenza».

Nostalgia della scuola del Trentino?

«Ho nostalgia perché in Trentino avete un amore vero per la scuola, che da molte altre parti manca. E non è solo una questione di soldi dell’autonomia».

A proposito di bambini e immigrazione, abbiamo bisogno dello shock emotivo dei corpicini senza vita sulle spiagge per cambiare le politiche dell’accoglienza?

«Basterebbe quel che già sappiamo, colpisce il peso che hanno queste immagini. Sembra che non basti riconoscersi nella comune umanità di un’unica vita da giocarsi, loro come noi. Ma se l’impatto emotivo cambia le politiche nell’immediato, qual è l’effetto a medio termine? L’Ungheria ha comunque continuato per la sua strada, così la Polonia».

E allora, ancora una volta: che fare?

«Credo molto di più nella forza della ragione, anche nella fede per chi crede: ma basta la ragione, che non è una forza da poco. L’emotività invece è una forma di debolezza del pensiero».

Se avesse diretto La Repubblica, l’avrebbe pubblicata, la foto straziante del piccolo Aylan Kurdi?

«Non sono per la censura, ma per il rispetto dei codici etici dell’immagine. Forse l’avrei messa in un contorno importante di altre immagini, che aiutassero alla riflessione e non ci abbandonassero alla forza delle emozioni. Voglio dire: non l’avrei lasciata sola».

Da L’Adige, 11 ottobre 2015.

Intervista su L’Adige